- 08: Memoria del nostro venerabile Padre Seridos, egumeno del Monastero di Gaza
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
Memoria del nostro venerabile Padre Seridos, egumeno del Monastero di Gaza, morto in pace
D’origine greca (o siriana) abbà Seridos visse in Palestina alla fine del V secolo. Divenuto monaco fondò un monastero a Tawata, patria di San Ilarione (21 ott.), a qualche km a sud di Gaza, che diresse per lunghi anni come egumeno. Vi si conduceva vita cenobitica, ma, come era allora costume, alcuni monaci avanzati nella vita spirituale, vivevano da esicasti in prossimità, o anche da reclusi nella cinta del monastero, edificando i fratelli con le loro preghiere e la loro saggezza. È là che, disdegnando i voleri di altri abbàs, si erano ritirati i due grandi Anziani, San Barsanufio e Giovanni il Profeta ( 6 febb.), inviati da Dio per dirigere i monaci nel loro cammino spirituale. Seridos non era che il loro discepolo obbediente e non faceva niente senza consultare i <>. Poiché Barsanufio e Giovanni vivevano nella stretta reclusione e non comunicavano con i loro figli spirituali se non per lettera, Seridos serviva loro da intermediario e segretario. Egli era colui che <>. Quando San Barsanufio gli dava i responsi diretti ai suoi corrispondenti, incaricava Seridos di scrivere sotto dettatura, assicurandolo che lo Spirito Santo lo avrebbe guidato per, una volta rientrato nella sua cella, trascrivere tutte le parole in ordine, senza ometterne alcuna.
Temperante fin dalla gioventù, Seridos si mostrava di una estrema serietà e si sollevò ad una tale ascesi che cadde gravemente malato. Fu guarito dalla preghiera di San Barsanufio che gli ordinò di trattare il suo corpo da allora con discernimento, in modo da utilizzarlo da ausiliario per la liturgia spirituale e per avere la resistenza necessaria al governo dei fratelli. Il <> l’aveva severamente provato nell’obbedienza e la rinuncia della propria volontà, cosicché egli pervenne ad un così alto grado di perfezione che Barsanufio lo lodava come: <> (Lettera 141). Egli ereditò così i carismi e il discernimento del suo padre spirituale e fu per i suoi monaci un padre pieno di bontà, di saggezza e una sorgente di gioia e di pace per tutti quelli che lo avvicinavano. <> (Lettera 10). Le virtù di abbà Seridos gli acquistarono una tale reputazione che alcuni monaci consideravano che egli avesse sorpassato la misura umana, è perciò che il Signore lo provò con delle ulcere e una lunga malattia, affinché <> (Lettera 599). Egli non chiedeva a Dio di guarirlo o di alleggerire la sofferenza, ma solamente di accordargli tolleranza e azione di grazia. Quando fu chiamato da Dio nella dimora dei giusti, lasciò il governo del monastero ai fratelli più d’esperienza, per ordine d’anzianità. Ma poiché tutti si erano ritirati per umiltà, ci fu Eliano un uomo che aveva da poco abbandonato il mondo, che fu eletto egumeno. San Giovanni il Profeta aveva predetto che non sarebbe sopravissuto più di otto giorni a Seridos, ma per le insistenze di Eliano, egli trascorse ancora due settimane ad istruire in quelli che erano i doveri della sua carica prima di addormentarsi a sua volta.
- 08: Trasferimento delle reliquie del santo Padre MASSIMO il CONFESSORE
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
Il 13 di questo mese si festeggia il trasferimento delle reliquie del santo Padre MASSIMO il CONFESSORE.
San Massimo nacque nel 580 da una illustre famiglia di Costantinopoli, dotato di una intelligenza eccezionale e di rara capacità per le alte speculazioni filosofiche, fece dei brillanti studi ed entrò nella carriera politica. All’avvento al trono, nel 610, l’imperatore Eraclio, comprendendo il valore e apprezzando le virtù cristiane, fece di Massimo il suo primo segretario. Onori, potere e ricchezza non poterono comunque spegnere in lui il desiderio che intratteneva segretamente fin falla giovinezza, di condurre una vita conforme alla vera filosofia. Dopo soli tre anni egli abbandonò la sua carica e le vane distrazioni del mondo e divenne monaco al Monastero della Madre di Dio di Crisopoli, presso Costantinopoli. Ammirabilmente preparato al combattimento spirituale grazie alla meditazione delle Sacre Scritture e allo studio dei Santi Padri egli progredì ripidamente nella scala delle virtù che conduce alla beneamata impassibilità. Dominava con scienza gli slanci della cupidigia con l’ascesi, l’irritazione con la dolcezza e, liberando così la sua anima dalla tirannia delle passioni, nutriva la sua intelligenza con la preghiera e si elevava verso le altezze della contemplazione. Nel silenzio della sua cella, piegato sull’abisso del suo cuore, considerava in se stesso il grande Mistero della nostra Salvezza secondo il quale, spinto dal suo amore infinito per gli uomini, il Verbo di Dio accettò d’unirsi alla nostra Natura, separata da Dio e divisa da se stessa dall’amore egoista di sé, al fine di ricondurre all’unità, di far regnare fra gli uomini l’unione armoniosa della carità fraterna, e di aprire loro la strada dell’unione con Dio, perché <> (I Giov. 4,16).
Dopo aver così trascorso una dozzina di anni nell’esechia egli si installò con il suo discepolo Anastasio, nel piccolo monastero di San Giorgio, a Cizico, e cominciò a redigere le sue prime opere: dei trattati ascetici sulla lotta contro le passioni, la preghiera, l’impassibilità e la santa carità. Ma, nel 626, l’offensiva congiurata degli Avari e dei Persiani su Costantinopoli, che doveva essere respinto grazie all’intervento miracoloso della Madre di Dio [1], costrinse i monaci a disperdersi. Un nuovo modo di vita iniziava per San Massimo, l’errare. Ciò gli faceva portare testimonianza di carità divina, con la sua condotta e i suoi scritti, in un mondo bizantino al limite della catastrofe in seguito alle invasioni persiane. Egli soggiornò qualche tempo a Creta, dove cominciò il combattimento per la fede ortodossa, affrontando i teologi monofisiti, passò a Cipro e arrivò finalmente a Cartagine, nel 632 dove fece conoscenza e si mise sotto la direzione spirituale di S. Sofronio (11 marzo), grande conoscitore della tradizione monastica e teologo famoso per la sua ortodossia, che soggiornava al monastero di Eukrata con altri monaci rifugiati della Palestina dopo la presa di Gerusalemme da parte dei Persiani. Durante questo periodo (626-634), prima di incamminarsi nella lotta per la fede, San Massimo poté approfondire come nessun altro prima di lui, la dottrina della deificazione, esponendo i fondamenti filosofici e teologici della spiritualità ortodossa. In dei profondi e difficili trattati sui passaggi oscuri della Santa Scrittura, sulle difficoltà di San Dionisio Aereopagita e San Gregorio il Teologo, e sulla Divina Liturgia, egli scrisse una grandiosa sintesi teologica secondo la quale l’uomo, piazzato da Dio nel mondo per essere il prete di una liturgia cosmica, è chiamato a riunire le ragioni (logoi) di tutti gli esseri per offrirli al Verbo. Divino, loro Principe, in un dialogo di libero amore di modo che compiendo il disegno per il quale è stato creato, cioè la sua unione con Dio, egli conduce così l’universo intero verso la sua perfezione in Cristo, il DIO-UOMO.
Dopo la salita al trono, Eraclio si era sforzato di riorganizzare l’impero bizantino sbrindellato e di preparare la controffensiva contro i Persiani con una serie di riforme amministrative e militari e soprattutto di ristabilire l’unità dei cristiani, per evitare che i monofisiti si rivolgessero verso i Persiano o gli Arabi, il Patriarca di Costantinopoli, Sergio, incaricato dall’imperatore a questo fine di trovare una formula dogmatica di compromesso suscettibile di soddisfare i monofisiti senza rinnegare il Concilio di Calcedonia, propose la dottrina del Monoenergismo, secondo la quale la natura umana di Cristo sarebbe rimasta passiva e neutra, essendo stata assorbita dall’energia del Verbo di Dio. E infatti non si trattava che di un monofisismo appena mascherato, dove si rimpiazzava il termine di NATURA con quello di ENERGIA. Nel 630 l’imperatore nominò Ciro di Fasis patriarca di Alessandria, con la missione di realizzare l’unione con i monofisiti, particolarmente numerosi in Egitto. allorché l’unione fu segnata (633), mentre nella taverna di Alessandria il popolo si vantava di aver guadagnato i Calcedonesi alla causa monofisita, San Sofronio solo elevò la voce per difendere le due nature di Cristo. Egli andò ad Alessandria presso Ciro, che volendo evitare una lotta aperta lo rinviò da Sergio, a Costantinopoli. Dopo lunghe discussioni senza risultato reale, Sofronio si vide vietare dal prolungare oltre il dibattito sulle nature le energie. Egli tornò in Palestina dove fu accolto dal popolo come il sostenitore dell’Ortodossia e fu eletto patriarca di Gerusalemme, nel momento stesso che gli arabi invadevano il paese e cominciavano una serie di conquiste ce andavano più che mai a mettere l’imperatore in pericolo. Appena eletto, San Sofronio, pubblicò una lettera enciclica, nella quale precisava che ogni natura aveva la sua propria energia, una è la Persona del Cristo ma due sono le sue nature e le sue operazioni (energie).
Durante questo tempo, rimasto a Cartagine, san Massimo entrava discretamente nella lotta dogmatica per sostenere il suo padre spirituale e, senza opporsi al divieto di parlare di due energie, mostrò con finezza che << il Cristo opera umanamente ciò che è divino, attraverso i suoi miracoli, e divinamente ciò che è umano, attraverso la sua Passione vivificante >>. Ma quando nel 638, Eraclio pubblicò in un editto (Ectesis), confermando il divieto di parlare di due energie e imponendo a tutti di confessare una sola volontà nel Cristo (Monotelismo), il monaco dovette uscire dal suo riserbo e passare ormai alla confessione pubblica della verità. Poiché San Sofronio era morto lo stesso anno, Massimo era guardato da tutti come il portavoce più autorevole dell’Ortodossia. Come all’epoca di San Attanasio e San Basilio, il sostegno della vera fede dipendeva ancora da un solo uomo. In una abbondante corrispondenza, indirizzate al papa di Roma, al sovrano e ai personaggi più influenti dell’impero, e sui trattati di una profondità ineguagliabile, Massimo il Saggio, dimostrò che il Verbo di Dio, per un amore e un rispetto infinito per le sue creature, ha assunto la natura umana in tutta la sua integrità, senza nulla alterare della sua libertà. Libero di retrocedere avanti alla Passione, Egli si era sottomesso volontariamente, intanto che uomo, alla volontà e al disegno divino, aprendoci così la via della salvezza (Mat. 26,39). Con la sottomissione e la sua obbedienza. Perfettamente unita alla libertà di Dio nella Passione del Cristo, la libertà umana si trovava così restaurata nel suo movimento naturale verso l’unione con Dio e gli altri uomini attraverso la carità. Ciò che l’esperienza della preghiera e della contemplazione gli aveva permesso di intravedere Massimo poteva ormai esporlo, fondando la dottrina della deificazione dell’uomo sulla teologia dell’Incarnazione. Nessun altro Padre aveva mai posato così lontano l’esame della libertà umana e della sua unione con Dio, nella Persona del Cristo come nei santi. Con San Massimo la dottrina ortodossa dell’Incarnazione trova la sua esposizione più completa; non resterà altro, qualche tempo più tardi a San Giovanni Damasceno che presentarla in maniera più accessibile, per liberarla alle generazioni successive come una tradizione immutabile.
Sergio di Costantinopoli morì nel 638, e il nuovo patriarca, Pirro, il promotore ardente della nuova eresia. Inoltre, malgrado le pressioni, una gran parte di cristiani resisteva all’applicazione del decreto imperiale e, un po’ prima di morire,(641), Eraclio dovette riconoscere il fallimento della sua politica religiosa. Pirro, caduto in disgrazia al momento della successione, fuggì in Africa e affrontò san Massimo a Cartagine, in una disputa pubblica sulla Passione di Cristo (645). Esponendo il Mistero della Salvezza con una argomentazione di un rigore infallibile, il santo riuscì a far riconoscere i suoi errori al Patriarca che propose finalmente di andare di persona a Roma per gettare l’anatema sul Monotelismo davanti alla tomba degli Apostoli. Tuttavia un po’ di tempo dopo, egli ritornò << al suo venuto >> e fuggì a Ravenna. Il papa Teodoro lo scomunicò subito e lo condannò per eresia il suo successore al trono di Costantinopoli, Paolo. In reazione a questo intervento del papa e temendo che una rottura aperta con Roma ne aggravasse la situazione politica, divenuta più che mai precaria in seguito alla conquista dell’Egitto da parte degli Arabi, l’imperatore Costante II (641-668) pubblicò il Tomos (648) che impediva a tutti i cristiani, sotto pena di punizioni severe, di discutere delle due nature e delle due volontà. Si cominciò allora a perseguitare gli ortodossi, soprattutto i monaci e gli amici di San Massimo. Costui raggiunse a Roma il nuovo papa, Martino I (20 sett.), che era fortemente deciso a sostenere la vera fede, e fu l’ispiratore del V Concilio di Costantinopoli (649) che condannò il Monotelismo e rigettò l’editto imperiale. Invitato al più alto grado contro questa resistenza, l’imperatore allora un esarca a Roma alla testa di un’armata (653). Essi arrestarono il papa malato e impotente, lo condussero a prezzo di mille sevizie a Costantinopoli, dove fu giudicato come un criminale, oltraggiato pubblicamente e di là fu spedito in esilio a Cherson, dove morì nella situazione più penosa, nel settembre 655.
Quanto a san Massimo, egli era stato arrestato, un po’ dopo Martino, con il suo fedele discepolo Anastasio e un altro Anastasio legato del papa e, trascorrendo in prigione lunghi mesi prima di comparire avanti al tribunale che aveva così odiosamente condannato il santo prelato. Si voleva presentare la sentenza del capo dell’Ortodossia come un processo politico; così lo si accusò di essersi elevato contro il potere imperiale e di aver favorito la conquista dell’Egitto e dell’Africa da parte degli Arabi, poi lo sia accusò di aver seminato la divisione nella Chiesa con la sua dottrina. Fissato in Dio e con carità verso i suoi nemici, il santo rispondeva con una calunnia impassibile alle calunnie e, difendendosi di non difendere nessuna dottrina in particolare, si dichiarava pronto a rompere la comunione con tutti i patriarcati e anche a morire, piuttosto che gettare il turbamento nella sua coscienza a tradire la fede. Condannato all’esilio, fu condotto a Byzia (Tracia), il suo discepolo Anastasio a Perberis e l’altro Anastasio a Mesembria, nella privazione più completa ma senza far loro perdere la gioia di soffrire nel Nome del Signore nell’attesa della resurrezione. Avendo appreso ne corso del suo processo, che il nuovo papa, Eugenio I, era pronto ad accettare una formula di compromesso, supponendo una terza energia nel Cristo, San Massimo scrisse una lettera dogmatica, grazie alla quale il popolo di Roma spinse il papa a soprassedere sull’accordo imperiale di farsi consacrare. Comprendendo allora che non avrebbe potuto sottomettere gli ortodossi prima di aver guadagnato Massimo, l’imperatore inviò da lui il vescovo Teodosio e dei abili cortigiani. La sofferenza dell’esilio ed il lungo soggiorno in prigione non avevano per nulla fatto perdere a Massimo la sicurezza di sé. Egli respinse senza difficoltà tutte le argomentazioni, espose nuovamente la dottrina ortodossa e terminò esortando con lacrime l’imperatore ed il patriarca a pentirsi e ritornare alla vera fede. Per tutta risposta, gli inviati del sovrano si gettarono su di lui come bestie feroci, lo subissarono di ingiurie e di sputi.
Trasferito a Perberis, San Massimo restò sei anni con Anastasio. Fino al loro nuovo processo, nel 622, avanti al patriarca di Costantinopoli e al suo sinodo. Gli venne chiesto: << A quale Chiesa tu dunque appartieni: di Costantinopoli? Di Roma? Di Antiochia? Di Gerusalemme? Poiché tutte sono unite a noi >>. Il santo rispose: << La Chiesa universale è la giusta e salvifica confessione di fede nel Dio dell’universo >>. Minacciato di pena capitale replicò: << Ciò che Dio ha determinato prima di tutti i secoli si trova in un termine che gli rende gloria che Egli ha prima di tutti i secoli! >>. Dopo averlo ingiuriato e maledetto il tribunale ecclesiastico liberò, lui e i suoi compagni, al prefetto della città che li condannò alla flagellazione facendo tagliare gli organi della loro confessione: la lingua e la mano destra. Dopo averli condotti per la città tutti insanguinati, li fece incarcerare in fortezze separate, nel lontano Caucaso, a Lazico. È là che all’età di 82 anni, il 13 agosto 662, San Massimo fu definitivamente unito al Verbo di Dio, che egli aveva tanto amato e di cui aveva imitato la passione vivificante con la confessione della fede e il martirio. Si racconta che quella notte, tre lampade simbolo della Santa Trinità si accesero da sole sopra la sua tomba.
Note:
1) In questa occasione del miracolo venne probabilmente composto l’Inno Acathisto alla Madre di Dio. È commemorato il V sabato di grande Quaresima o Sabato dell’Acathisto.