• 08: Memoria dei Santi 813 Martiri d’Otranto

a cura del Protopresbitero Benedetto Colucci

-Otranto 1480. 13 e 14 Agosto, il Martirio degli 800. Dalle cronache dell’epoca….

E’ il 13 Agosto. Otranto è un mucchio di rovine, una tomba. Il Pascià ordinò che cessasse l’occisione e che si facessero schiavi. Rapida come il baleno, si sparge la notizia e, fulmineamente, vengono rastrellati tutti gli uomini. Sono oltre 800.

Il Pascià con l’aiuto di un interprete incominciò a persuadere et esortare che si volessero far Turchi e rinnegar Cristo, perché l’avria dato le loro mogli e figlioli e l’avria lasciati nella Città liberi e che avessero servito il Signore (Sultano) e che quando questo non volessero gli avria fatti ammazzare. Così persuadeva e così esortava il loro Coggia (Hotzas), come chiamano il loro Maestro, che così si doveva agire per aver fatto resistenza al Sultano non consegnando la città. L’interprete era un Calabrese, il quale era stato un tempo un prete cristiano e si chiamava, prima della sua apostasia, Don Giovanni Moplesi.

E’ l’ultimatum: “O la vita col Corano, o la morte col Vangelo”. Ed ecco farsi innanzi, con passo sicuro, uno dei più umili di quella nobile schiera: il vecchio cimatore di panni Antonio Primaldo (o Grimaldo) Pezzulla.

“In persona di tutti (a nome di tutti) rispose che essi tenevano Gesù Cristo per Gesù figlio di Dio e loro Signore e vero Dio e che più presto volevano mille volte morire piuttosto che rinnegarlo e farsi Turchi e credere ad un rinnegato dannato et inimico di Cristo. E voltatosi ai Cristiani disse queste parole:

-Fratelli miei, sino ad oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvare la vita e per li Signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvare l’anime nostre per il nostro Signore, il quale essendo morto per noi in Croce, conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella Fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio”.

Un coro fece eco alle parole dell’invitto campione:

-Piuttosto mille volte morire con qual si voglia sorte di morte che rinnegar Cristo.

Il Pascià, indignatosi, ordinò che tutti fossero decollati e che il primo fosse Antonio Primaldo che aveva parlato e li aveva persuasi.

Era il 14 Agosto, giorno di Lunedì, quando gli 800, con le mani legate sul nudo dorso, a gruppi di cinquanta, furono condotti sul colle della Minerva, lontano dalla città circa 300.

Racconta il cronista che: “quando andavano così legati, una giovane era anco portata da certi Turchi e vedendo due suoi fratelli così legati che andavano coll’altri disse:

-O fratelli miei, dove andate?

Rispose uno: Andiamo a morire per amor di Gesù Cristo.

In queste parole cascò in agonia e tramortita in terra detta giovane e volendo un Turco farla levare, gli diè colla scimitarra un colpo sul capo e l’ammazzò”.

Arrivati al luogo destinato, gli Ottocento salirono sul colle della Minerva, e qui, un Turco, presentando alli Cristiani legati una tavoletta scritta con certi caratteri Turcheschi, diceva loro: Chi vuol credere qua, li sarà salva la vita, altrimenti sarà ucciso.

Neppure uno indietreggiò dinanzi al terribile dilemma e secondo il cronista si assistette a scene bellissime: i figli imploravano la benedizione dai genitori, i genitori incoraggiavano i figli ad affrontare la morte; si baciavano, si abbracciavano e, contenti come se andassero ad una festa, si salutavano: Arrivederci in Paradiso.

Cominciò, così, la carneficina: il primo a cui fu troncato il capo, fu Antonio Primaldo.

“Essendogli tagliato il capo, stette saldo e dritto senza cascar mai in terra, come una colonna, non ostante che li Turchi lo spingevano per farlo cadere”. Cadde “solo e da per sè” quando la scura ottomana staccò il capo all’ultimo degli Otrantini. Alla vista di questo miracolo, un Turco di nome Berlabei si convertì dicendo: Grande è il Dio dei Cristiani! Per questo fu impalato.

Il sangue dei martiri, scrive lo storico italo-greco De Ferraris, “tinse di rosso il mare”. Le tenebre della notte caddero come sipario funebre sul silenzio della grande ora, mentre per i corpi benedetti, sparsi sul terreno, ebbe inizio la lunga attesa di oltre un anno quando la città fu liberata.

 

  • 08: Memoria del santo profeta Michea

da: santiebeati.it

Michea nacque nel villaggio agricolo di Moreset, a non molti chilometri da Gerusalemme, ed il suo nome in ebraico era in realtà una domanda retorica, al tempo stesso professione di fede: “Chi è come il Signore?”. Michea quindi non fu altro che un contadino prestato alla profezia. Visse al tempo del grande profeta Isaia, di cui forse fu anche discepolo, in quanto in una sua pagina (4,1-3) citò uno splendido inno a Sion, città di pace, già presente nel libro del suo presunto grande maestro (Is 2,2-5).

L’iconografia relativa a Michea, come già era accaduto per il profeta contadino Amos, presenta immagini rudi e vigorose, che colpiscono con sdegno quasi nauseante lo sfruttamento e i soprusi verso la gente dei campi. Egli alzò la voce anche contro i falsi profeti, accomunandoli alle dominanti classi corrotte: “Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono… Divorano la carne del mio popolo, gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi come carne in una pentola, come lesso in una caldaia. […] I loro profeti fanno traviare il mio popolo, annunziano la pace solo se hanno qualcosa da mordere sotto i denti; ma a chi non mette loro niente in bocca dichiarano la guerra” (2,2; 3,3.5). Diviene inevitabile perciò l’ingresso in scena del Signore della giustizia, ad emettere un suo giudizio contro questi lugubri individui. Già Dio era comparso all’orizzonte di Samaria, capitale del regno settentrionale di Israele, città affatto non esente da vergogne ed ingiustizie, a suo tempo denunziate appunto da Amos.

Michea raccontò invece il crollo di quella elegante e gaudente città sotto le armate del re assiro Sargon II nel 721 a.C.: “Ridurrà Samaria a un mucchio di rovine in un campo, rotolerà le sue pietre nella valle, frantumerò tutte le sue statue e dei suoi idoli farò scempio” (1,6-7). Anche a Gerusalemme il Signore riservò poi una sorte medesima: “Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine, il monte del tempio un’altura selvosa” (3,12). Questo triste destino non è però evitabile esclusivamente con riti e preghiere, ma queste devono essere accompagnate da una vita coerente, cioè dalla giustizia: “Con che cosa mi presenterà al Signore? Mi presenterà a lui con olocausti e con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede da te il Signore: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,6-8).Il cristianesimo ha però voluto porre l’accento in particolare su un passo degli scritti di Michea: “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele… Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà… Egli starà là e pascerà con la forza e la maestà del Signore” (5,1-3). Questo annunzio messianico risuonò ancora ben sette secoli dopo, illuminato da un nuovo evento, all’interno del palazzo del perverso re Erode (Mt 2,6). Da allora fortunatamente risuonarono però anche per tutti i giusti come messaggio di speranza e di gioia, annunciando l’avvenuta nascita a Betlemme di Giuda di un dominatore, promesso sin dall’antichità, che avrebbe pascolato Israele e non solo con la forza del Signore.