• Memoria del giusto GEDEONE, della tribù di Manasse, che fu giudice in Israele

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Lo stesso giorno, memoria del giusto GEDEONE, della tribù di Manasse, che fu giudice in Israele.

Quando il popolo di Israele era oppresso dai Medianiti, a causa dei suoi peccati, un angelo del Signore apparve a Gedeone annunciandogli che Dio lo aveva scelto per rivestirlo del Suo Spirito Santo e liberare Israele. Gedeone chiese al Signore la conferma di questa elezione con un segno che sfidava l’ordine della natura. Egli stese un velo di lana al suolo e chiese che la rugiada lo coprisse mentre il resto del suolo rimanesse secco. E così fu. All’indomani Gedeone chiese che il vello rimanesse secco e che la rugiada ricoprisse il suolo. E Dio esaudì il desiderio del, suo servitore, non solo per dimostrare che lo aveva eletto, ma per lasciare un segno profetico della nascita verginale del Cristo: la vera rugiada celeste che è discesa nel seno della Madre di Dio come sul vello, vincendo così tutte le leggi dell’ordine naturale. Il Signore non lasciò che trecento uomini a Gedeone perché non potesse dire: << È la mia mano che mi ha salvato e non trarre gloria della sua vittoria >>. Su ordine di Dio, andarono in piena notte nel campo dei Medianiti, suonando la tromba e, rompendo le brocche che avevano in mano, fecero un tale baccano che gettarono il panico tra i nemici e li inseguirono fino alle coste del Giordano. Dopo aver conquistato il resto del paese e aver rifiutato di diventare re, Gedeone diresse il popolo d’Israele come giudice, in pace, per 40 anni. Egli morì in una tranquilla vecchiaia sepolto nella tomba dei suoi padri (Giud. 6,7).

  • Memoria del nostro Padre Teoforo NILO di Calabria e di santo Stefano il Semplice, primo discepolo e conterraneo di san Nilo

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

Lo stesso giorno, memoria del nostro Padre Teoforo NILO di Calabria[1] .

San Nilo nacque nel 910, in seno ad una delle più illustri famiglie di Rossano, capitale di Calabria, una delle rare città che per la protezione della Madre di Dio, era sfuggita al pericolo saraceno. Poiché i genitori di Nilo non tardarono a morire, fu affidato alle cure di sua sorella, primogenita, e ricevette una educazione molto raffinata. Egli godeva a restar solo per consacrarsi alle letture delle Sante Scritture e della vita dei santi, e si teneva lontano dai costumi depravati del suo tempo. Ma non avendo guida spirituale, il giovane si lasciò prendere dal laccio del piacere e si innamorò di una ragazza della città, da cui ebbe ben presto una figlia. In seguito ad una malattia, da cui guarì rapidamente attraversando un fiume, Nilo comprese che Dio lo chiamava ad una vita più perfetta. Egli abbandonò subito tutto ciò che lo teneva legato al mondo e andò al monastero del Monte Mercurion per essere ricevuto come monaco. Ma, essendo stati minacciati i monaci di severe rappresaglie se accettavano il giovane aristocratico, Nilo fu costretto a proseguire il suo viaggio fino al monastero di San Nazario, dove ricevette il santo abito monastico dopo quaranta giorni. Poco tempo dopo poté tornare al Monte Mercurion per mettersi sotto la direzione spirituale dei venerabili asceti Zaccaria e Fantino[2] . L’obbedienza di Nilo fu severamente provata dai suoi padri spirituali ma mostrò un tale zelo per la rinuncia alla volontà propria ed un tale amore per la solitudine che non tardò ad essere autorizzato a ritirarsi in una grotta dei dintorni, per intrattenersi, senza sosta, avanti al Dio invisibile come se fosse visibile.

Durante il soggiorno in questa grotta, san Nilo iniziò con ardore a sottomettere la sua carne alle leggi dello spirito. Egli ignorava l’uso di vino o di ogni nutrimento cotto e restava sovente, due, tre o cinque giorni senza mangiare. Dal mattino alla terza ora, si dedicava al suo lavoro manuale, la calligrafia, che era l’occasione per lui di penetrare più profondamente le Sante Scritture e le opere dei Padri. Dalla terza alla sesta ora, si teneva avanti alla croce, recitando salmi e prostrazioni (metanie). Dalla sesta alla nona ora si sedeva per leggere e meditare le scritture e i Santi Padri, poi celebrava l’ufficio della Nona e i Vespri. Alla fine dell’ufficio usciva dalla grotta per fare una piccola passeggiata e offriva la loro parte ai suoi sensi, contemplando la bellezza della creazione e glorificando Dio nelle sue opere. Egli prendeva in seguito il suo magro pasto fatto di pane, di legumi secchi o di qualche frutto poi si concedeva tutto al più un’ora di sonno, prima di trascurare tutta la notte in preghiera facendo più di cinquecento metanie. Egli viveva nella più stretta povertà e indossava on ogni periodo una grossa tunica di peli di capra, che cambiava solo una volta l’anno, quando era coperta di vermi. Malgrado questi sforzi ascetici, il santo traeva ogni giorno vantaggio dall’umiltà, condannandosi da se stesso in tutto e considerando che viveva nella solitudine a causa della sua debolezza e che i cenobiti lo superavano nelle loro opere. Egli versava abbondanti lacrime e lottava senza sosta contro gli assalti dei demoni che volevano indurlo in tentazione con immagini o false visioni e cercavano di fargli lasciare la grotta. Quando la tentazione diventava troppo forte, il santo fingeva di acconsentirvi. Cominciava a partire; ma, sul cammino, sospendeva un vecchio vestimento ad un albero e si prostrava davanti come se si trattasse del suo padre spirituale che gli chiedeva la ragione della sua partenza. Confuso e non sapendo cosa rispondere, tornava allora nella grotta, incoraggiato dalla fiducia del sostegno delle preghiere del suo Anziano. Dopo più di dieci anni di lotte e soprattutto di umile offerta della sua debolezza al Signore, Dio gli accordò la vittoria sulle tentazioni della carne e la grazia dell’impossibilità. Egli divenne molto stimato nella regione e ammirato sia dai saraceni che dai cristiani.

Qualche tempo più tardi, il demone, costantemente tenuto in scacco nella guerra interiore che egli conduceva contro il Santo, passò all’assalto con prove esteriori. Gli inflisse delle malattie per impedirgli di compiere il suo programma quotidiano, ma Nilo resistette a tutti gli attacchi. Quando il demone lo rese afono per impedirgli di recitare i salmi, il santo contrattaccò immediatamente con la preghiera silenziosa. Una notte il Maligno gli apparve in maniera visibile, lo colpì e lo lasciò mezzo morto, ma il santo continuò a pregare. San Fantino finì per convincerlo a ritornare per un po’ al monastero, a causa della sua santità. Nilo obbedì, ma appena si ristabilì, ritornò nella sua grotta, malgrado il desiderio dei fratelli di farlo egumeno. Nilo accettò ben presto di prendere un novizio, Stefano, verso il quale si mostrò duro ed esigente, ma senza alcuna collera. Come un padre attento all’educazione di suo figlio, faceva crescere in Stefano l’uomo interiore, confermandolo nell’ascesi, la rinuncia e l’umiltà. Per aiutare il ragazzo a lottare contro il sonno, Nilo gli confezionò uno sgabello ad un solo piede e gli impedì di utilizzare qualunque altra sedia: di modo che quando cominciava ad essere preso dal sonno, Stefano cadeva a terra. Ma il suo amore per il discepolo era tale che, quando il monastero di Fantino fu preso dai saraceni, Nilo, pensando che il suo discepolo fosse stato catturato e inviato come schiavo, volle presentarsi ai barbari per non abbandonarlo.

Verso il 956, Nilo ed alcuni suoi discepoli furono costretti a lasciare la loro grotta a causa di una nuova invasione dei saraceni e andarono nei dintorni di Rossano, per installarsi nel piccolo oratorio di san Adriano. Dodici altri discepoli si aggiunsero ben presto ad essi. Nel monastero così costituito, i fratelli non cessavano di vivere nella stessa austerità e nella stessa povertà di Nilo nella sua grotta. Malgrado il suo amore per i fratelli, Nilo sopportava difficilmente la vita comune e ricordava con nostalgia la dolcezza della solitudine. La sua conoscenza infallibile dei misteri della Scrittura, la sua saggezza e il suo discernimento spirituale attirarono in lui un gran numero di visitatori, nonché i più grandi personaggi dell’impero. Egli ricevette tutti senza fare distinzioni di rango e insegnava loro ciò che gli dettava lo Spirito Santo, lasciandoli pieni d’ammirazione avanti alla sua scienza. Malgrado le resistenze della sua umiltà, venivano condotti a lui malati e posseduti perché egli li guarisse con la sua preghiera. Nilo accettava solo di ungerli con l’olio di una lampada prima benedetto da un prete. Essi venivano effettivamente guariti ma il santo attribuiva la causa alla preghiera della Chiesa. Da allora, guarì non solo un gran numero di malati ma andava anche in aiuto a coloro che soffrivano ingiustizie. Egli non esitava di uscire dalla sua grotta per andare in città o per percorrere a piedi grandi distanze al fine di far trionfare il diritto e la giustizia. Quando gli abitanti di Rossano di rivoltarono contro l’autorità, Nilo intervenne personalmente ed esortò il magistrato Niceforo al perdono. Egli acquisì così una tale reputazione che alla morte del vescovo, venne scelto come successore ma il santo fuggì dalle acclamazioni del popolo, infilandosi nella montagna.

Malgrado i rifiuti ripetuti di san Nilo, gli abitanti della regione non cessavano di fare donazioni al monastero, che si arricchì. Il santo stesso era onorato perfino alla corte di Costantinopoli, così decise di fuggire in Campania, n territorio latino, dove era sconosciuto, così da poter ritrovare la quiete e la austerità di vita, senza la quale non poteva trovare Dio. Ma la sua reputazione lo anticipò. Quando arrivò al monastero fondato da san Benedetto, al monte Cassino, i monaci latini lo ricevettero solennemente “come se Benedetto stesso fosse resuscitato dai morti”. Egli ottenne per lui ed i suoi discepoli, una dipendenza vicina al grande monastero dove potevano celebrare gli offici in greco: << affinché Dio sia tutto in tutti >>. Nilo redasse un officio a gloria di san Benedetto e andò al grande monastero per celebrare con i suoi monaci una veglia di tutta la notte secondo il rito bizantino. Alla fine della festa, i monaci benedettini ruppero la loro disciplina abituale per precipitarsi verso Nilo e assalirlo con domande spirituali. Malgrado la sua fermezza nella fede dei Santi Padri, san Nilo mostrò una grande apertura di spirito in merito alla differenza tra Greci e Latini. Sulla questione del digiuno del sabato praticato dai Latini, rispose; << Che noi mangiamo o che voi digiunate, è tutto a gloria di Dio che lo facciamo >>. Poiché il monastero di San Michele in Valleluce era a sua volta diventato ricco e la vita era più facile, Nilo l’abbandonò proponendo a coloro che volevano seguire la via stretta del Vangelo, di partire con lui. Egli andò nel Ducato di Gaeta e fondò il monastero di Serperi su una arida montagna, dove con i suoi compagni si consacrarono ad un aspro lavoro e alla salmodia perpetua. Il santo anziano era sempre più spesso assalito dalla malattia, ma non cessava di potenziare la sua ascesi. Egli cadeva sovente in estasi e non rispondeva alle domande che gli venivano poste se non con versi di salmi o parole della Santa Liturgia. Quando ritornava in sé e gli veniva chiesto dove si trovasse, si scusava dicendo che era vecchio e strampalato. Malgrado il suo ritiro, interveniva spesso presso i potenti per far regnare la giustizia e la mansuetudine. Così quando Filagetone il Calabrese, dopo aver tentato di impadronirsi del seggio papale, fu castigato dal Papa e dall’imperatore, Nilo andò di persona a Roma per intercedere il suo favore. L’imperatore Ottone III, vivamente colpito dal santo, gli rese visita nel suo monastero qualche tempo più tardi. Alla proposta del sovrano di venirgli in aiuto materialmente, Nilo rispose: << Io non ho bisogno del tuo regno, ma tu di salvare la tua anima >>. Dieci anni dopo la fondazione di Serperi, Nilo lasciò ancora una volta ciò che lo legava al mondo per andare nei dintorni di Roma, al monastero di Sant’Agata, che scelse per morire. Ben presto raggiunto dai suoi discepoli, designò uno di essi come successore, si preparò pacificamente alla morte e rese la sua anima a Dio, dopo essere rimasto due giorni continuamente in preghiera (26 settembre 1005). Il suo corpo fu ben presto trasferito a tre miglia da là, nell’attuale monastero di Grottaferrata (Crypto-Ferris), di cui è considerato come il fondatore e dove i suoi discepoli continuarono a vivere secondo la tradizione bizantina.

Note:

1) San Nilo non è menzionato nei sinassari bizantini. Qui è aggiunto per segnalare l’importanza della presenza monastica bizantina nell’Italia del Sud, regione che con la Sicilia, restò legata alla Chiesa Ortodossa fino al 15°-16° secolo.

2) San Fantino è commemorato il 30 agosto. Termina la sua vita a Salonicco e fu uno dei personaggi che con la loro esistenza unirono regioni ben distinte del mondo cristiano.

  • Memoria del transito del santo e glorioso Apostolo ed Evangelista GIOVANNI il TEOLOGO

a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria

╬ Il 26 di questo mese, memoria del trasferimento del santo e glorioso Apostolo ed Evangelista GIOVANNI il TEOLOGO, il discepolo vergine e l’Amico molto amato che riposò sul seno del Signore.

San Giovanni era originario di un povero villaggio della Galilea chiamato Betsaida. Era figlio di Zebedeo, il pescatore, e di Salomè, figlia di Giuseppe, il Fidanzato della Madre di Dio. In effetti Giuseppe aveva avuto dal suo precedente matrimonio tre figlie: Ester, Marta e Salomè. È per questa ragione che secondo il mondo, nostro Signore Gesù Cristo era zio di san Giovanni il Teologo, poiché fratellastro di sua madre Salomè.

Giovanni aiutava suo padre nella pesca con suo fratello Giacomo, quando furono chiamati dal Signore per diventare pescatori di uomini. Egli abbandonò sul campo ogni cosa per seguire il suo celeste insegnamento. Egli amava a tal punto la verginità e l’ascesi che, più di ogni altro discepolo, fu degno del nome di vergine. Il suo amore per Cristo era così ardente, la sua condotta così eccellente, che tra tutti divenne il discepolo Beneamato. La sua intimità con il Signore era tale che fu uno dei tre a salire con Lui sulla montagna del Tabor, per contemplare la divinità del Verbo risplendente nel suo corpo e per ascoltare la voce venuta dal cielo che diceva: <> (Mat. 17,15). Fu lui che il Maestro molto amato chiamò a sedersi vicino e riposare sul suo seno al momento della Mistica Cena (Giov. 13,23). Fu lui ancora che, trasportato dal suo amore, chiese di sedersi alla destra del Signore (Mat. 20,21) e che, allorché il Cristo fu preso dai Giudei, lo seguì fin nel cortile del gran sacerdote (Giov. 18,15). Quando il Signore venne crocifisso, restò solo con la Madre di Dio ai piedi della Croce. Fu allora che il Cristo, rivolgendosi a sua madre disse, mostrando Giovanni:<< Donna, ecco tuo figlio >>. Poi disse a Giovanni:<< Ecco tua madre >>. E da quel momento il discepolo vergine prese vicino a lui la Madre vergine (Giov. 19,27).

Al momento dell’annuncio della Resurrezione, Giovanni anticipò Pietro correndo verso la tomba. Fu lui che si piegò per primo e vide le bende che giacevano a terra (Giov. 20,56). Egli vide il Cristo dopo la sua Resurrezione e, con gli altri discepoli, ricevette da Lui il compito di andare a predicare la Buona Novella per tutta la terra, quando soffiò su di essi in garanzia del dono dello Spirito Santo (Giov. 20,22). Egli assistette anche alla sua ascensione al Cielo e ricevette il Santo Spirito sotto forma di fiamme di fuoco con gli altri discepoli il giorno della Pentecoste (Atti 1-2). Egli fu l’ultimo a restare a Gerusalemme, in compagnia della Madre di Dio, per servirlo fino alla sua Dormizione.

Al momento di separarsi per andare a predicare in tutte le regioni del mondo, gli Apostoli tirarono a sorte per sapere da dove ognuno dovesse andare. A Giovanni toccò l’evangelizzazione dell’Asia Minore che era a quell’epoca piena di idolatria e tutta intera votata ai pagani. Questa notizia rattristò molto san Giovanni che, in quanto uomo, non sapeva ancora rimettere tutta la sua speranza nella potenza invincibile di Dio. Per verificare questa debolezza umana, Dio gli fece sapere che doveva essere sottoposto alla prova della tempesta e al furore delle onde per quaranta giorni, prima di arrivare a destinazione. Durante questa tempesta, il discepolo di Giovanni, il diacono Procoro, fu rigettato dalle onde sulle spiagge di Seleucia. Là fu accusato di magia dagli abitanti della città e accusato di aver derubato l’argento del battello che aveva fatto naufragio. Egli dovette fuggire e arrivò quaranta giorni dopo in una città dell’Asia Minore, chiamata Marmareote, dove trovò il su maestro che le onde avevano gettato là.

Da questa città, andò ad Efeso, dove caddero nelle mani di una donna che si chiamava Romana, fidanzata al governatore Privato.. ella li obbligò a servire in condizioni disumane in un bagno che le apparteneva e dove abitava un demone a cui c’era abitudine di gettare tre volte l’anno un ragazzo e una ragazza, come tributo. Dopo aver lavorato tre mesi, il demone afferrò un certo Domnus, parente di Romana e lo annegò nel bagno. Pressato dalla sua padrona che lo credeva un mago, Giovanni lo resuscitò con la sua preghiera. Approfittando dell’ammirazione che aveva suscitato in Romana e nei suoi parenti, li catechizzò, li battezzò e cacciò il demone con la forza della sua preghiera.

Gli efesini avevano grande devozione per la dea Artemide, e celebravano grandi feste in suo onore. In una di queste feste, Giovanni salì su una collina dove si trovava la grande statua d’Artemide per parlare alla folla. Vedendolo, i pagani presi da furore, lo coprirono di pietre per ucciderlo. Ma per la Grazia di Dio nessuna delle pietre toccò il santo. Esse colpirono tutta la statua, che fu così ridotta in pezzi dai suoi stessi adoratori. Restando sordi ai segni della Provvidenza, e ai discorsi di san Giovanni, essi vollero ancora una volta lapidarlo, ma le pietre ritornarono contro di loro e, alla preghiera dell’Apostolo, la terra tremò e inghiottì più di duecento tra essi. Gli altri, ritornando infine alla ragione, in seguito a questi avvenimenti, supplicarono Giovanni di intercedere perché venisse fatta loro misericordia e perché quelli che erano morti ritrovassero la vita. Dopo che Giovanni ebbe interceduto per loro, essi uscirono dalle viscere della terra, venerarono il santo e furono battezzati.

Poiché i miracoli di Giovanni si moltiplicavano, e con essi le conversioni al Cristo, il demone che abitava il tempio di Artemide prese l’apparenza di un ufficiale imperiale che si lamentava di essersi fatto scappare due mogli dai poteri straordinari e garantendo una forte ricompensa a quelli che le ritrovavano o li avrebbero uccisi. Con l’occhio dell’intelligenza rischiarato dal Santo Spirito, Giovanni comprese l’inganno del demone e, forte della potenza di Dio, si diede egli stesso ai pagani, in compagnia di Procoro. Vennero fatti prigionieri e trascinati nel tempio di Artemide. Arrivato là, il discepolo Beneamato elevò le sue preghiere presso Dio, perché distruggesse il tempio senza badare alla vita umana. Appena pronunciò la preghiera, l’edificio, che era la gloria del culto pagano, cadde e Giovanni scacciò con la sua sola parola il demone che vi dimorava da 249 anni, con grande stupore dei pagani presenti, di cui la maggior parte cedettero al Cristo.

La fama di Giovanni arrivò fino all’imperatore Domiziano, che l’invitò a comparire. Interrogandolo, constatò che la fiducia che aveva il santo in Cristo era più forte di ogni potenza terrestre, così decise di isolarlo nell’isola di Patmos, pensando di ridurre la sua influenza. Durante il suo viaggio, Giovanni, sempre accompagnato da Procoro, dimostrò la benevolenza di Dio verso gli uomini guarendo dalla dissenteria i soldati della sua scorta. Arrivato a Patmos, guarì Apollonide, figlio di un certo Mirone, notabile dell’isola, da uno spirito impuro. Grazie a questo miracolo ed alla parola del santo, tutta la casa credette e fu battezzata, cosicché come un po’ più tardi anche il governatore dell’isola.

In quel tempo, un mago di nome Kynopso, dotato di tutti i poteri di Satana, dimorava in un luogo deserto di Patmos, servito da una truppa di demoni. Temendo la potenza che aveva dimostrato san Giovanni dal suo arrivo, i sacerdoti di Apollo fecero credere al mago di ridurre all’impotenza questo pericoloso rivale. Troppo fiero della sua potenza, non aspettava altro per sbarazzarsi di lui. Egli inviò un demone, che Giovanni ridusse all’impotenza al solo Nome di Gesù Cristo e cacciò dall’isola, nello stesso modo, tutti i servitori demoniaci del mago. Benché la potenza di Kynopso non fosse solo che illusione, poiché solo Dio può fare miracoli, egli sfidò san Giovanni a resuscitare un morto, mentre da parte sua avrebbe fatto apparire un demone al funerale del defunto. Un’altra volta, sfidando di nuovo il Discepolo del Signore, cadde in mare, volendo riapparire dopo qualche istante. Ma alla preghiera di Giovanni, il mare lo inghiottì, come il faraone lanciato all’inseguimento di Mosè. Fu così che non si vide più questo mago ed i suoi servitori sull’isola di Patmos.

Durante il suo soggiorno a Patmos, Giovanni ricevette una lettera dal vescovo di Atene, Dionisio Aereopagita, che allora aveva 99 anni. Tra altre lodi, lo chiamava sole del Vangelo e profetizzava la sua prossima liberazione. In effetti quando Traiano prese la successione di Nerone (98), richiamò san Giovanni ad Efeso, tra il grande dolore degli abitanti di Patmos che egli aveva convertito. Non volendo lasciarli completamene orfani, e dopo aver avuto conferma da un segno divino, egli digiunò tre giorni con l’assemblea del popolo, salì sulla montagna in compagnia di Procoro, e diresse verso Dio tutte le forze della sua intelligenza. Improvvisamente dei colpi di tuono e dei lampi rischiararono il cielo e scossero la montagna. Colpito da stupore, Procoro cadde a terra come un morto, mentre Giovanni restò impassibile nella sua contemplazione: perché << il perfetto amore scaccia la paura >> (Giov. 4,18). Egli udì una voce di tuono dire dall’alto dei cieli:<< All’inizio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio… >> (Giov. 1,1). Procoro scrisse sotto il dettato di questa voce, per trasmettere questo messaggio di salvezza, rivelato a Giovanni come la Legge a Mosè sulla montagna del Sinai: non per il solo popolo ebreo, ma per tutti i confini della terra. Fu a Patmos che cadde, una domenica, in estasi e vide il Cristo apparirgli sotto l’apparenza di un giovane uomo di cui il <>. Rassicurandolo Egli disse a Giovanni: << Non aver paura, io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente; io sono morto, ed eccomi vivente per i secoli dei secoli, incatenando i capi della Morte e dell’Ade. Scrivi dunque ciò che tu hai visto: il presente e ciò che succederà più tardi >> (Apoc. 1,17). Poi gli rivelò (Apocalisse = Rivelazione) in grandiose visioni ciò che doveva succedere alla fine dei tempi: l’accrescimento dell’iniquità, la venuta dell’Anticristo, il suo combattimento contro i fedeli e la sua ultima lotta contro il Cristo, che lo avrebbe gettato per sempre finalmente nell’inferno con il diavolo ed i suoi angeli; egli contemplò così lo sconvolgimento del mondo, la consumazione di tutte le cose sotto il fuoco divino e, infine, il trionfo del Figlio dell’uomo, la resurrezione ed il Giudizio ultimo. Il libro dell’Apocalisse di san Giovanni, che è l’ultimo libro delle Sante Scritture, termina con la discesa sublime della Gerusalemme celeste, della Città santa ed eterna, dove Dio dimorerà per sempre con gli uomini, come Sposo unito alla sua sposa. Perfetta in tutte le sue proporzioni, questa città sarà simile all’oro puro e al cristallo, le sue assise saranno intarsiate di pietre preziose e le sue porte saranno dodici perle. << Templi, io non ho visto in essa, scrive san Giovanni, è il Signore, il Dio Maestro di Tutto che è il suo tempio, così come l’Agnello (il Cristo). La città non avrà bisogno di essere rischiarata dalla luce del sole né da quella della luna, poiché Dio la illuminerà e l’Agnello sarà la sua lampada >> (Apoc. 21).

Poi, chiudendo il libro delle rivelazioni divine, l’Apostolo Beneamato, che Egli aveva reputato degno di contemplare i Misteri ineffabili, invita i fedeli ad aspettare nel silenzio e nella preghiera la venuta del Signore: << Lo Spirito (Santo) e la Sposa (Chiesa) dicono: Vieni! E che colui che ascolta dica: Vieni! Che l’uomo assetato si avvicini (…) e riceva gratuitamente l’acqua della vita (…) Si, il mio ritorno è vicino, (afferma il Signore) Amen, Vieni Signore Gesù! >>. (Apoc. 22).

Di ritorno verso Efeso, Giovanni si arrestò in una città di nome Agroikia, dove, tra molti miracoli, convertì un delicato giovane al Cristo e lo affidò al vescovo. Poiché qualche tempo dopo egli ripassò da questa città. Apprese che quel ragazzo era diventato il capo dei banditi. Non risparmiando le sue forza ed ignorando il pericolo, l’anziano andò da solo sul lungo cammino e sulla montagna per ritrovarlo. Egli si offrì da solo ai briganti e poté così persuadere il ragazzo a ritornare sulla via di Cristo attraverso il pentimento. L’Apostolo Beneamato passò il resto dei suoi giorni ad Efeso, conducendo a Cristo un gran numero di pagani. Egli aveva 56 anni quando partì da Gerusalemme per predicare il Vangelo; predicò per 9 anni fino al suo esilio, trascorse 15 anni a Patmos e visse ancora 26 anni dopo il suo ritorno, di modo ché la durata della sua vita fu di 105 anni e 7 mesi.

Quando ricevette l’annuncio da Dio che il momento della sua partenza da questa vita era arrivato, ordinò ai suoi discepoli di costruire la tomba nella sabbia a forma di croce. Dopo averli abbracciati tutti e consolati, si stese da solo e ordinò loro di ricoprirlo fino alle ginocchia; poi dopo un nuovo addio, lo ricoprirono fino al collo, e gli ricoprirono il viso nel momento in cui il sole si alzava. Quando tornarono in città, piangendo, gli altri discepoli del santo vollero andare a loro volta sul luogo della sepoltura. Essi scavarono sul luogo della sua tomba, ma non trovarono più niente. In effetti, secondo la tradizione dei santi Padri, san Giovanni è resuscitato e salito al cielo, in modo simile a quello della Madre di Dio, realizzando la parola enigmatica del Salvatore data a Pietro che lo aveva interrogato su Giovanni: << Se voglio che egli rimanga fino a quando ritornerò, che importa a te? >> (Giov. 21,22). Egli non voleva dire con ciò che il discepolo Beneamato non sarebbe morto, ma piuttosto che gli riservava una sorte speciale, mettendolo in disparte fino alla sua seconda Venuta*.

* La cenere miracolosa che sgorga periodicamente dalla tomba del santo, origine della sua memoria l’8 maggio, è la prova che san Giovanni è morto in questo luogo.              

26.09: Memoria della traslazione da Roma a Patrasso del santo Capo dell’apostolo Andrea il primo chiamato (26.09.1964)