• Memoria del nostro Santo Padre Eufrosino, il cuoco

Del Protopresbitero Benedetto Colucci

San Eufrosino era un ingenuo contadino che aveva trovato rifugio in un monastero dove era stato messo a lavorare in cucina come lavapiatti svolgendo le mansioni più ingrate. Divenne lo zimbello di tutti ma sopportava tutto con salda generosità d’animo.

Nel monastero c’era un sacerdote devoto che desiderava ardentemente che il Salvatore gli rivelasse le cose buone che Egli aveva riservato per coloro che Lo amano. Una notte mentre dormiva, ebbe la sensazione di essere trasportato in Paradiso in un giardino pieno d’indescrivibili delizie. Eufrosino stava nel mezzo del giardino assaggiando le cose buone del giardino e gioendo insieme agli Angeli. Il sacerdote gli si avvicinò e chiese perché si trovasse lì. Eufrosino rispose: “Questa è la dimora degli eletti di Dio che tu hai atteso di vedere per molti anni ed io sono qui perché Dio, nella sua grande bontà, ha perdonato i miei peccati”.

Fissando lo sguardo a quelle indescrivibili delizie che: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano”. (1 Corinzi 2:9), il sacerdote osservò che, in una certa misura, esse erano percettibili a coloro che dimoravano lì, così chiese a Eufrosino se poteva portare qualche frutto del giardino con lui. Allora Eufrosino prese tre mele e le mise nel mantello del sacerdote. Proprio in quel momento il prete fu svegliato dal suono delle campane che chiamavano al Mattutino. Mentre si riprendeva dal sonno, il sacerdote pensò che quello fosse stato solamente un sogno ma fu colpito quando trovò tre mele nel suo mantello che emanavano un profumo di soprannaturale dolcezza.

Egli vide Eufrosino nel suo abituale posto nella chiesa e gli si avvicinò, supplicandolo di dirgli dove era stato durante la notte appena trascorsa. “Perdonami, padre – rispose- ma sono stato qui tutto il tempo”.

Ma poiché il sacerdote l’aveva supplicato calorosamente di non nascondere le benedizioni di Dio, l’umile Eufrosino alla fine disse: “E’ vero, padre, io ero nel giardino, dove tu hai visto le buone cose che Dio ha in serbo per i suoi eletti ed è stata volontà di Dio mostrarti, tramite la mia indegnità, i suoi misteri”. Non passò molto tempo prima che il sacerdote raccontasse a tutti quello di cui era stato testimone mostrando le mele come prova. I monaci furono incoraggiati attraverso questo segno a seguire con maggiore zelo il cammino della virtù, e quelli che assaggiarono le mele furono guariti da ogni tipo di malattia. Per quanto riguarda il beato Eufrosino, egli fuggì dal monastero, poiché non c’era cosa che più temeva della lode degli uomini.

Per le sue preghiere, Signore Gesù Cristo Dio nostro, abbi misericordia di noi e salvaci. Amin.

  • Memoria del nostro venerando padre Elia lo Speleota

Archimandrita Antonio Scordino

Elia nacque a Reggio da Pietro e Leontìa ed essendo giunto ai diciotto anni, si partì dalla casa di suo padre e con un parente andò in Sicilia: sembra che nel reggino non vi fossero monasteri di suo gradimento. Una visione divina confortò i genitori, non tanto disperati per la perdita del figlio volato come un pulcino dal nido, quanto preoccupati perché egli era invalido: da bambino gli si erano rotte le dita in un incidente; un medico le fasciò talmente strette che ne perse l’uso, e così fu soprannominato ‘il Monco’. Elia con il parente si stabilì presso il tempio di Sant’Aussenzio, che sta sotto la strada del colle San Nikon che sovrasta Taormina; ma dopo qualche tempo, il compagno tornò indietro, come cane al proprio vomito; fu ucciso dagli Ismaeliti e così morì di doppia morte. Elia, rattristato per la perdita, scese al mare e trovata una nave, con prospero vento giunse a Roma Antica. Una volta incontrò alcuni che, vedendolo forestiero, stabilirono d’ucciderlo; ma egli stese le mani al cielo e, mentre quegli assassini restavano paralizzati, Elia andò via glorificando Dio. Più fortunato fu invece l’incontro con il ghèron Ignazio che lo addestrò alla vita ascetica. Tornato a Reggio, Elia prestò obbedienza al sacerdote monaco Arsenio, che gli tagliò i capelli e lo vestì dell’abito monastico. I due vivevano vicino alla città, in un Metochio detto Mindino: Elia, digiunando tutta la settimana – eccetto sabato e domenica – si prestava a ogni lavoro; con uno spago si legava la zappa al moncherino, e così lavorava. Un sacerdote della cattedrale di Reggio, corrompendo lo stratega, il governatore civile e militare, Nicola Voterita [?] s’impossessò di quel metochio, che era proprietà del Monastero di Santa Lucia. Al ricorso dei due monaci, lo stratega rispose facendo bastonare il gheron Arsenio, ma quella stessa notte poco mancò che gli crepasse il ventre. Subito va ai nostri padri, portando loro cera e un otre d’olio, dicendo di volere restituire la proprietà ingiustamente tolta. Gli rispondono: “Provvedi alla tua casa perché morirai e non vivrai”. Tornato infatti al Pretorio [?], dopo tre giorni pagò con una immatura morte la giusta pena. Arsenio ed Elia lasciarono Reggio e abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio, vicino Armo. I due aumentarono i digiuni, le Veglie e la lettura dei salmi: durante la quaresima Elia faceva ogni giorno due o tremila metanie, profonde genuflessioni. Quando Arsenio celebrava i Divini Misteri e il popolo si avvicinava per la comunione, la faccia d’alcuni vedeva luminosa, d’altri vedeva nera come una pignatta. Perciò esortava: “Se qualcuno è ottenebrato per il ricordo del male ricevuto; se qualcuno è tenuto da rapina o avarizia, se qualcuno è infangato nelle impurità, non osi accostarsi a questo fuoco divino”. Ci fu un tale di Armo che comprava e vendeva schiavi; in breve morì. Quando Arsenio iniziò a celebrare la Liturgia, un angelo – mettendogli la mano sulla bocca – gli impediva di fare il nome di quel disgraziato. Nello stesso paese era morto in quei giorni un mendicante; apparve ad Arsenio e gli disse: “Eterna memoria, santo padre! Per le tue preghiere sono stato liberato dalle pene”. Divinamente avvisati d’una incursione degli Ismaeliti, Arsenio ed Elia navigarono sino a Patrasso, e chiesero al vescovo di quella città la benedizione di stabilirsi in una torre dirimpetto alla città, buona per abitazione di monaci, ma infestata dagli spiriti. Di essi non aveva alcun timore Arsenio, il quale era solito dire: “Mi sono fatto monaco quindicenne, e non ho mai visto diavoli; ho visto solo i miei cattivi pensieri”. In quella torre i due dimorarono otto anni. Una volta un nobile di Patrasso invitò i due a pranzo e sua moglie importunava Elia, colpita dalla sua bellezza; le fu perciò mandato uno spirito che la faceva tutta tremare. Compreso che quel guaio le era capitato perché aveva tentato di turbare Elia, chiamava: “Santo padre, il mio spirito viene meno!” Uscì fuor di sé il santo; ma per ubbidienza ad Arsenio, dice alla donna: “Se d’ora innanzi vivrai castamente, Dio laverà il tuo peccato, e sarai da questo flagello liberata”. E così avvenne. Una volta il vescovo accompagnò Arsenio ai bagni pubblici, e quando quello si tuffò nell’acqua, quel luogo si riempì di profumo divino. Si sparse la fama del miracolo per ogni dove: perciò i due decisero di andar via. Ma il vescovo convocò il clero e disse: “I santi padri vanno via!” Quelli risposero: “Non possiamo trovare altri santi! Impedisci loro di partire”. Essendo dunque giunta la festa della Teofania (fece molta neve, quell’anno) e celebrata la Divina Liturgia, il vescovo con tutto il popolo si recò nel kellìon dove vivevano i padri, trascinando lo skevofilax, il tesoriere della cattedrale, con le mani legate e fingendo di batterlo. Il vescovo disse: “E voi siete monaci? E voi temete Dio? avendo fatto contro di noi un tale sacrilegio?!” Il divino Arsenio rispose: “Perdonami, signore, ma che tentazione è questa?” Allora lo skevofilax confessò: “Il monaco Elia e io abbiamo rubato i vasi sacri, li abbiamo venduti, e ci siamo divisi il ricavato”. Rispose Arsenio: “Credimi, signore, ho preso con me Elia da ragazzo e non ha mai toccato un soldo”. E pianse così tanto che alla fine il vescovo li lasciò partire, chiedendo perdono per il tranello. Così i due tornarono in Calabria e di nuovo abitarono presso il tempio di Sant’Eustrazio. In quei giorni si trovava dalle parti di Reggio Elia il Nuovo col discepolo Daniele, in una grotta vicino al tempio di San Donato: faceva molti prodigi e prediceva che Reggio sarebbe stata invasa dai Saraceni. Arsenio gli mandò a dire: “Dio ha in odio le mie opere, e perciò non riesco a fare previsioni”. Elia il Nuovo gli rispose: “E che, padre? vuoi fare l’indovino? Cosa cerchi più grande della grazia che è in te? Che vedi durante la Divina Liturgia?” Arsenio infatti celebrava stando in mezzo a un fuoco spirituale, e vedeva la Grazia del Santo Spirito come fuoco che copriva l’altare, perciò non smetteva di piangere dall’inizio alla fine della Liturgia. Quando Elia il Nuovo fu convocato dall’imperatore [Leone VI, nel 902], disse a tutti: “Figli miei, non vi lascerò orfani; come siete stati ubbidienti a me, così sottomettetevi ad Elia Speleota”. E al discepolo Daniele disse: “Dopo la mia morte, chiamalo a guidare il mio gregge”. Sentendosi morire, Arsenio mandò a chiamare Elia, che si trovava allora nel kastro di Pietracappa. Velocemente quegli arriva e tra le sue braccia il ghèron rese la luminosa anima nelle mani di Dio; fu deposto nel tempio di Sant’Eustrazio. Ma dopo molti anni gli Agareni, pensando che nel sepolcro vi fosse nascosto un tesoro, lo aprirono e trovarono il corpo incorrotto: portarono frasche e canne per bruciarlo, ma senza effetto finché se ne andarono confusi. Dopo essersi partiti gli Agareni, Elia uscì dal kastro, e depose il corpo dentro il tempio. [Morto Elia il Nuovo, 903] Daniele mandò a chiamare Elia. Partito a piedi da Armo, questi arriva al Monastero delle Saline, sopra Palmi, sfinito dalla sete e dal caldo: era estate. Per metterlo alla prova, Daniele lasciò Elia davanti alla porta sino a tarda sera, poi lo fece entrare ma trattenendolo in conversazione sino a notte fonda. Durante l’Ufficiatura notturna Daniele fu sorpreso dal sonno, e fece per uscire dalla chiesa. Allora Elia lo afferra per il mantello, e sorridendo gli dice: “Fratello, resta con me a combattere sino al mattino!” Dopo qualche tempo trascorso nel Monastero delle Saline, a Elia venne il desiderio di abitare solitario. Un certo monaco Cosma lo accolse allora presso Melicuccà, nella spelonca in cui viveva (che poi diventò la cantina del Monastero delle Grotte). Elia esultò perché quel luogo era deserto e inaccessibile, ma il monaco Cosma vide in sogno che lì sarebbe nato un cenobio: prese perciò il suo discepolo Vitale e si stabilì altrove. Elia infatti decise d’accettare discepoli. Osservando i pipistrelli che entravano e uscivano da una fenditura, i discepoli capirono che il monte era cavo; un certo Cosma, pratico ed esperto, studiò accuratamente il colle e, fatto scavare, aprì l’ingresso alle spelonche. Lo stesso Cosma si fece monaco, dopo aver fatto eseguire altri lavori (come la salina e il mulino). Elia adattò una spelonca a tempio, dedicato ai santi Pietro e Paolo; si infuriò perciò il diavolo: uno dei discepoli del santo gli sentì dire che non poteva sopportare che lì dimorasse il ‘monco’ Elia. Il beato tutta la notte scriveva e pregava; finita la Celebrazione notturna si stendeva per terra e diceva al sonno: “Vieni, servo cattivo!” Mentre Elia un giorno era in quella spelonca e scriveva, secondo la sua abitudine, alcuni di Seminara venivano a lui, quando si fa loro incontro un tale che somigliava a un etiope da loro conosciuto. Gli dicono: “Da dove vieni, signor Foti, e dove vai?” Quello rispose: “E’ venuto Elia il monco, e ci ha mandati via dalla nostra casa; ora andiamo a Mesoviano [Mesiano di Filandari, Vibo], nella grotta detta Santa Cristina”. E si sollevò in aria, andando via zoppicando e maledicendo. Salmeggiando a Vespro e alla Celebrazione notturna, Elia teneva i piedi immobili come se fossero radicati in terra, senza appoggiarsi al bastone o al cancello, senza nemmeno grattarsi per pidocchi o pulci o zanzare. Nella Divina Liturgia andava in estasi e comunicava alla celeste perla con ogni timore, come Isaia per mano del serafino. Vicino alla pietra su cui il santo scriveva, c’era una botte di vino per la Liturgia; una volta scese tanta pioggia che la botte si riempì d’acqua. Il monaco Luca, il calvo, dice al santo: “Come celebreremo la Liturgia?” Il santo sorride, fa il segno della croce e dice: “Gustate e vedrete che Cristo è Signore”. Subito l’acqua s’era fatta vino buono. Elia rimproverò un’orsa che rubava il miele, e la belva andò via. Il santo diceva: “Se osservassimo i precetti di Dio, tutte le cose sarebbero a noi soggette, come a Adamo prima di trasgredire al divino precetto. Ora le creature si sono ribellate contro di noi: non sono loro a temerci ma noi ad avere paura di loro”. Il suddetto Luca raccontò: “Una volta Elia mi mandò a Sant’Agata [oggi: Oppido] insieme al monaco Vitale. Per la strada un’orsa mi ferì, lasciandomi mezzo morto. Vitale mi portò agonizzante al monastero. Il padre mi fece il segno della croce, pregò, e in pochi giorni fui sano”. Una volta Saba uscì senza permesso dal monastero. S’impossessò di lui il cattivo spirito, ma il santo in pochi giorni lo guarì. Gregorio Vurtuanite, poiché non gli piaceva il regime del Monastero delle Grotte, se ne voleva andare in un altro. Vede allora in sogno un angelo che lo prende a schiaffi, dicendo: “Sottomettiti al padre, e unisciti ai fratelli”. Mentre tagliava un albero, il monaco Luca cadde nel burrone vicino alla sorgente. Elia pregava con le mani tese al cielo, mentre i monaci calavano per prenderlo, ma Luca andò loro incontro, illeso e tutto allegro. Quando il patrizio Vitalone si ribellò all’imperatore [?], Elia disse: “Entro l’anno lo sciagurato morirà”. E infatti poco dopo Vitalone fu scannato dai suoi stessi domestici. Il santo conobbe il giorno e l’ora dell’omicidio, benché il luogo fosse lontano dal monastero 42 chilometri circa, e disse: “In questo momento è stato ucciso il ribelle”. L’igumeno Lorenzo raccontò: “Una volta Elia mi chiama e mi dice: Lorenzo, se tu vedessi entrare qui uomini e donne, resteresti nel monastero? Io risposi: Non sia mai. E lui: Vedrai entrare tanta gente come per la festa di sant’Elia il Nuovo. Meravigliato, gli dico: Per quale motivo? Ed egli mi dice: L’acqua che gocciola da quella pietra della spelonca, ha il potere di guarire; ma non voglio che ora faccia miracoli; pregate anche voi con me, perché non faccia miracoli per ora. Tu sarai il mio successore nel governo dei fratelli”. Un giovane era oppresso dal cattivo spirito: Elia, levate le mani al cielo, lo mandò via guarito. Vicino Mesoviano c’è un luogo detto Asfaladeo [?]; vi abitava Epifanio, un sacerdote che scriveva incantesimi. Temendo d’essere deposto dal grado sacerdotale, di nascosto lo confessa al beato. Elia gli toccò il capo e subito uno spirito gli uscì dalla bocca, come un corvo. Una volta gli fu portato un fanciullo che aveva la bocca e gli occhi deformi: di continuo sobbalzava. Elia lo segnò col segno della croce e subito il fanciullo tornò allo stato naturale. Il monaco Luca raccontò che l’illustrios Gaudioso, essendo malato, aveva deciso di andare a farsi visitare da medici di Palermo. Mentre era in viaggio per mare, dalle parti di Milazzo si addormentò. Si svegliò poi di soprassalto, gridando: “Fatemi scendere a terra! voglio scendere! E’ venuto il gran medico Elia, mi ha aperto la bocca e mi ha cavato dal ventre come un maiale, ed ecco sono guarito”. Una volta venne al monastero Pietro, un amico dei monaci, e lasciò il cavallo nel cimitero. Quella stessa notte gli apparve un giovane, tutto luminoso, che minacciava: “Hai fatto la nostra casa pascolo del tuo cavallo!” Alzatosi, vide il cavallo a terra mezzo morto, e così gonfio che stava per scoppiare. Udite queste cose, il santo disse: “Apri la bocca del cavallo e infondi l’acqua che gocciola nella grotta”. Fatto questo, il cavallo si alzò. Il monaco Giovanni di Gerusalemme raccontò: “Ero stato mandato a Reggio, e tra molti impegni qui e lì tutto il giorno, pensavo: E’ cosi che mi salverò? Essendomi addormentato, vedo il santo con la testa tagliata; il sangue scorreva per tre parti, e la testa mi parlò: Non vedi che per voi ho buttato sangue? Obbedite ai vostri igumeni e siate loro soggetti, perché essi vegliano per le anime vostre”. A un tale tormentato dal demonio carnale, il santo disse: “Ho combattuto per trenta anni le tentazioni; i dardi del nemico si smorzano con il digiuno”. Il santo viveva coperto solo d’uno straccio e di un mantello di pelle. Gli chiesero: “Non si agghiaccia il tuo corpo d’inverno né si brucia d’estate?” Rispose: “Figli miei, da anni il mio corpo non sente più né freddo né caldo”. Il santo aveva adottato nel battesimo un figlio, chiamato Elia, che si ammalò di cancro. Il santo disse che non sarebbe guarito prima di farsi monaco; guarì anche il fratello di questi, il sacerdote Giovanni. Quando scoppiò l’incendio di Càveri [?], il sacerdote Lucio – arrampicato sul tetto della casa – invocava il santo. Allora il fuoco si divise in due parti, e continuò a divorare monti e boschi senza danneggiare l’abitazione. Il monaco Giovanni, figlio di Pardeleo, raccontò: “Mio padre mi portò a spalle dal santo, perché avevo le membra inaridite, e subito mi sentii alleggerito dai dolori”. Il santo guarì anche la madre di questi, oppressa da febbre terzana. Elia tuttavia diceva che il vero miracolo è tenersi lontano dai piaceri che fanno guerra all’anima. Diceva di troncare la propria volontà, perché chi mette insieme rinuncia di sé e volontà, costui è un adultero. Il parlare del padre era potente ed efficace. Comandava ai discepoli di tagliare alberi grandi, o di rotolare macigni dalla cima del monte che sta sopra il monastero, ed egli intanto supplicava Dio: si vedevano allora alberi e macigni scivolare come se fossero intelligenti. Sorridendo come era solito, Elia diceva: “Perché vi meravigliate? Se avrete fede come un granello di senape, niente sarà a voi impossibile”. Quando venivano gli Agareni, Elia si nascondeva nei monti intorno al monastero; quando poi quelli partivano, usciva solo dopo essere stato cercato a lungo. In segreto disse che per quaranta giorni aveva preso solo un poco di pane e niente acqua. Anche nelle altre incursioni, si ritirava nel kastro con i monaci. Una volta i Saraceni assaltarono il Monastero; all’improvviso si aprì davanti a loro una voragine oscura e senza fondo: impauriti, tornarono indietro. Mentre il santo era in preghiera, una volta fu visto trasfigurato e divinamente luminoso; spiegò allora con molta circospezione: “Figli miei, desideravo sapere come l’anima, uscendo dal corpo, superi le Potestà e i Principati. Mentre così meditavo, vedo me stesso salire, e mi trovai al di sopra d’ogni Potenza, senza impedimento e senza danno. Questa tremenda visione ho continuamente, quando pratico l’isichìa”. Una volta una monaca entrò nella grotta. Il santo alza gli occhi e dice: “Chi sei? e che vuoi tu qui?” Quella se ne andò umiliata e confusa. Una volta il santo trovò alcuni rimasugli di carne, che un monaco aveva mangiato di nascosto: li buttò ai cani, e quelli non li toccarono. Disse: “Vedi come non la toccano i cani? E tu, fratello!…” Il padre da molti anni teneva la bara nella grotta in cui abitava e non smetteva di bagnarla con calde lacrime, sperando nella risurrezione. Egli aveva il dono delle lacrime, e non smetteva mai di piangere. Nelle feste vegliava per tutta la notte, e la sua faccia era illuminata dalla Grazia divina; per tutto il giorno mandava raggi. Una notte un macigno rotolò poco a poco dalla cima e si posò davanti alla porta del santo: chiaramente era segno che egli stava per separarsi da noi. Egli raccontò d’aver visto due persone, vestite di bianco, che lo accompagnarono dall’imperatore, lui che mai aveva visto un re. Arrivati davanti a una colonna, la cui altezza arrivava al cielo, facilmente e senza alcuna fatica vi salirono. Egli allora vede i gradini, sale, e si presenta al re. La colonna alta sin al cielo è la scala di Giacobbe; i gradini sono le virtù. Era già vecchio, e diceva: “Figli miei, non profanate la santità del corpo con crapule e ubriachezza: chi vive mollemente, è come se fosse morto. Rendete perfetta la vostra professione monastica, con una totale ubbidienza. Siate diligenti e ferventi di spirito nei servizi del cenobio, senza pigrizia o mormorazione. Più delle stelle risplenderà l’anima di chi avrà fatto morire le passioni con digiuni e veglie”. Una volta il monaco Giovanni vide in sogno molti uomini vestiti di bianco, che cavalcavano cavalli bianchi, e in mezzo di loro una donna vestita di porpora, bellissima. Con cembali, chitarre e altri strumenti suonavano e battevano le mani, come a un matrimonio; aprirono la porta ed entrarono. Cercava d’impedire loro d’entrare, ma essi lo spintonarono: “Non opporti; ecco le nozze del Re!” Svegliatosi, il monaco dice al santo: “Padre, queste cose ho visto in sogno”. Gli risponde il padre: “Tra pochi giorni, quelli verranno a prendermi”. Nell’annua ricorrenza di sant’Elia il Nuovo [17 agosto], anche il nostro Elia salì [da Melicuccà], per abbracciare quelle preziose reliquie e licenziarsi spiritualmente dall’amico, a lui uguale di nome e di vita. Sentendo un poco di mal di stomaco, tornò al proprio monastero, sopportando con pazienza la malattia, senza alcun lamento. Dopo venticinque giorni consegnò l’anima nelle mani di Dio. Subito il suo volto diventò splendente, e per tutta la notte mandava raggi. Elia era alto, gli occhi ridenti, i denti bianchi, la barba grande e divisa in due, la faccia rossa e allegra, con tutti sempre ridente con divina grazia. Fu la sua morte l’11 settembre, essendo presente il vescovo Vitale con molti sacerdoti e laici. Dopo aver vegliato tutta la notte, deposero il venerabile corpo nel sepolcro nuovo, che egli stesso aveva scavato nella spelonca. Nella monastica palestra si esercitò per 77 anni; in terra visse 96 anni. Dopo non molto tempo, Elia – risplendente di gloria divina – apparve a un discepolo. Questi chiese: “Dove sei, padre?” Rispose e disse: “Figlio, il Re mi ha fatto entrare nel coro degli asceti”. Il monaco Antonio raccontò: “Quando il santo morì, l’ho visto seduto sulla porta; teneva in mano una croce d’argento e tutti andavano a baciarla; guardai di nuovo indietro, ed ecco non era: ma sento una melodia soave e stupenda fuori la porta. Tento di uscire per seguire il canto, ma la porta era chiusa. Allora chiedo chi ha chiuso la porta, e mi rispondono: La porta del monastero l’ha chiusa il padre. Mi sforzavo di uscire, e non potendo, mi svegliai”. Molti miracoli fece Dio per mezzo delle reliquie del nostro padre Elia. Il sacerdote Pietro si prese il bastone d’Elia e lo portò al suo paese. Avendolo lavato con acqua, asperse con questa Niceta – il figlio d’Erotico – ed egli fu liberato dalla paralisi. Con la stessa acqua guarì anche sua suocera. Il monaco Giacomo aveva una nipote pazza; non potendo farla entrare per baciare la tomba del santo, la fece venire travestita da uomo. Gli appare il santo che, sorridendo, dice: “Come un ladro hai rubato la guarigione! Apri la bocca!” Quella sputò un serpentello, e fu subito guarita. La moglie di Teodoro di Melicuccà, figlioccio del santo, ch’era indemoniata, baciò la tomba e fu libera. Giorgio, del paese dei Gaiani [?], aveva un figlio indemoniato. L’adagiò accanto alla tomba del miracoloso padre, e subito fu liberato. Un sacerdote della regione dei Mesi [sopra Bagnara Calabra], fu dato al demonio: mutava di faccia, e schiumava dalla bocca. Temendo d’essere deposto, si rifugia dal santo: lava con lacrime la tomba, la bacia, passa una notte intera in preghiera, e la mattina esce liberato dal demonio. Anche suo fratello fu liberato dal demonio. Una bambina di Bruzzano, languida di mani e di piedi, fu portata dalla madre; il monaco Elia la depose accanto alla tomba del santo. Poco dopo la fanciulla sedeva a giocare. Il monaco Giorgio – che un tempo abitava nelle grotte di Maratona [?], aveva mal di denti; supplicò il monaco Luca che gli toccasse i denti con il coltellino del santo. Essendosi coricato, vede il padre, risplendente di luce, che l’incensava e gli levava il dolore dei denti. Cristoforo di Sicrò, era una volta a comprare grano, e per via fu percosso dal demonio meridiano: strabuzzava gli occhi, tremava tutto, restò quasi venti giorni senza mangiare né dormire. Fu portato con una barella, deposto presso la tomba del santo, e unto con olio della lampada. Essendosi assopito, vede il santo, risplendente di luce, che gli apre lo stomaco e ne tira fuori come un uovo di oca. Al mattino andò via guarito, lasciando la barella come prova della guarigione. Morì il figlio del sacerdote Pietro, un bel ragazzo. Suo padre viene alla tomba del santo, la bagna con calde lacrime, la bacia, grida; dopo pianti e sospiri, si addormenta ed ecco, “mi parve” – raccontò – “che scendevo assieme a mio figlio e dietro di me come una tempesta. Vedo il santo, risplendente di gloria, e gli dico: Che succede? E lui: Non temere, è una burrasca che passa; dille tre volte: Dice il peccatore Elia, non ho paura di te. Così ho fatto, e quel tremendo suono che mi seguiva, subito andò via”. In quel momento il ragazzo aprì gli occhi, e chiese da bere. Due monache, una fu unta con l’olio, l’altra toccò di nascosto la tomba, e subito guarirono. Giovanni, figlio di Fagro, paralitico, fu unto con l’olio della lampada e guarì. Una ragazza di Bruzzano, figlia di Cordì, era cieca: la madre e lo zio la portano al monastero. Le apparve il santo che pulì gli occhi con una spugna, e ricuperò la vista. Stefano, un servo di Nicola di Placas [?] nel territorio di Sivilliano [?], impazzì. Stava nudo su una pietra accanto al lago, come un rospo. Avendolo preso e legato, lo unsero con l’olio della lampada, “e io” – raccontò poi – “vedo una luce splendente più dello splendore del sole e un monaco, alto, con i capelli bianchi, una grande barba, risplendente di luce incomparabile. Mi toccò nel fianco con il piede e mi dice: Non temere! Diventa servo di Cristo che ti ha guarito”. Stefano non si allontanò più dal monastero. Glauco, di Muro, idropico, dopo aver passato due giorni accanto alle reliquie, vide in sogno il santo che gli estraeva dalla bocca un serpente attorcigliato. La mattina si alzò guarito. Il servo di Mailo, di Sicrò, era indemoniato e schiumava dalla bocca. Portato al monastero, mentre l’igumeno Lorenzo celebrava la Liturgia, nove volte lo spirito travagliò il ragazzo. I monaci portarono allora la spugna, con la quale  alla morte avevano lavato il corpo del santo, la immersero nell’acqua e ne diedero a bere a quello, così che subito il cattivo spirito andò via. Leontìa, figlia di Licastro, cugino del santo, che abitava dalle parti di Placas, paralitica, sognò di litigare con il santo: “Tu liberi da ogni infermità estranei e forestieri. E io, che sono tua parente?” Sognò ancora che il santo le dava un bicchiere di vino: si svegliò ed era guarita. In compagnia d’Eleuteria, una nobildonna, andò allora al monastero, e non potendo entrare nella spelonca, si coricò fuori. Mentre dormiva gli apparve una donna vestita di bianco, che la rimproverò. Il monaco Saba si prese gli zoccoli del santo e li portava sempre con sé. Una volta, mandato a Pilio [?] per fare pece, pose uno zoccolo sul petto di un pastore che aveva un male. Lo spirito si mise allora a strillare: “Toglietemi di sopra lo zoccolo del monco Elia, perché mi rompe le ossa!” E il pastore guarì. Uno zoccolo il monaco Saba se lo portò nel Monastero dei Siracusani [?]; quello destro, il monaco Ilarione l’ha portato al Monastero di Malvito. Il monaco Konon, mentre tornava al proprio monastero, fu percosso dal cattivo spirito che gli fece la faccia nera. Lo piangevano morto, ma per fortuna il monaco Vitale si ricordò dello zoccolo del santo: lavano lo zoccolo, gli fanno bere l’acqua: l’infermo subito ritorna in sé. Subito si addormenta, perché era sera, e gli appare il santo, splendente, che gli dice: “Konon, credi, e sarai salvo”. Preso un coltello, incide la mano dell’infermo, e avendo estratto un verme, gli dice: “Ecco il cattivo spirito che ti flagella”. Si svegliò il monaco, e si alzò guarito. Queste cose le ha raccontate proprio lui. Il sacerdote Giovanni viveva con sua moglie nel kastro di Trigoni [presso Sinopoli]. Sua figlia, sposata, impazzì: tentò di uccidere i propri figli. Il padre le fece bere l’acqua con cui era stato lavato lo zoccolo, e guarì. Dopo aver bevuto quell’acqua guarirono anche una donna muta dalla nascita e una sofferente d’insonnia. Per questo, pensarono di tenersi lo zoccolo, ma poi il sacerdote Giovanni l’ha restituito.                          

  • Memoria di Santa Teodora di Vasta d’Arcadia

a cura della Parrocchia greco-ortodossa di San Paolo dei Greci (Reggio Calabria)

Santa Teodora visse nel 9 ° secolo dC ( secondo altri nel 10 ° secolo dC ), cioè anni dell’impero bizantino. I suoi genitori erano poveri e sconosciuti, ma amavano Dio e trasmisero la loro fede in Cristo ai figli. Fin dalla tenera età Teodora, rispetto agli altri fratelli, ha avuto un amore e inclinazione speciale verso il divino. Amava Dio così tanto che ha voluto dedicare tutta la sua vita a Lui. Acquisiva sempre più, giorno dopo giorno, quello che i Santi Padri chiamano ” desiderio di Cristo”.

Crescendo decise di chiudersi in un monastero e di coltivare il suo amore per Cristo. Ma il paradosso è come abbia scelto non un convento femminile, ma uno maschile! Si presentò presso il monastero di “Panaitsas”, che è al limite fra la regione dell’Arcadia e della Messenaia, come uomo di nome Teodoro. Possiamo tranquillamente sostenere più di un motivo per cui fece questo. Probabilmente voleva scomparire completamente dai suoi conoscenti.

Nel monastero non tardò molto nel divenire un esempio di pazienza, obbedienza e umiltà. Queste qualità gradualmente la portarono ad un grande progresso spirituale, riconosciuto dall’Abate e dai confratelli. I Padri del monastero, ammirando la personalità e le qualità che lo distinguevano, gli affidarono i lavori esterni del monastero. Infatti, in questa diakonia si ritrovano sempre monaci o monache con esperienza nella vita spirituale.

 

Nello stesso periodo si verificò nella regione del Peloponneso una terribile carestia, le persone ed il monastero erano minacciati dalla fame. Tutti i Padri rivolsero lo sguardo su “Teodoro”, come se fosse l’unico che avrebbe potuto aiutarli in questa difficile situazione. In effetti, “Teodoro” visitò e sostenne molte case cristiane, e riuscì a risparmiare un pò per la comunità monastica.

Ma qualcosa di terribile accadde! Una donna aveva emesso nei suoi confronti una grave accusa, disse:<>. Questa notizia si diffuse rapidamente! Una terribile calunnia era stata messa in atto. I genitori della donna in stato di gravidanza, arrabbiati andarono al monastero e violentemente comandarono a “Teodoro” di seguirli. Il “monaco”, anche se negò l’accusa non si rifiutò di seguirli. Lo processarono sommariamente e lo giudicarono colpevole. Ricevette la pena di morte, “la morte per decapitazione.” Anche se poteva rivelando il suo corpo provare la sua innocenza, preferì “sollevare” il peso della calunnia! Il luogo della esecuzione fu scelto nel villaggio di Vasta in Arcadia. Il carnefice condusse “Teodoro” che lo seguiva “come un muto agnello.” Dopo poco tempo l’anima di Santa Teodora svolazzava verso il cielo, verso il posto che si era preparata fra le beate sante martiri della nostra Chiesa.

Il carnefice e i suoi colleghi che la decapitarono, videro il suo corpo nudo e pentitesi chiesero il perdono di Dio.

L’evento miracoloso divenne noto in tutto il mondo! L’Abate e compagni asceti giunsero acclamanti al luogo del martirio e lodando Dio seppellirono il suo corpo nel monastero, secondo il parere di altri nello stesso luogo del supplizio.

Si dice che prima della decapitazione, la Santa abbia chiesto a Dio che il suo corpo divenisse una chiesa, i capelli alberi e il sangue fiume. In effetti, sul tetto della chiesa fondata, situata a Vasta in Arcadia, sono sorti 17 alberi, che, paradossalmente stanno ritti sul tetto a testimoniare come dove Dio vuole è vinta la natura!

La biografia dettagliata della Santa, fu scritta dal vescovo di Gortina e Megalopolis S.E.R. Teofilo.

Da notare, infine, che la biografia della santa stessa, ha diversi elementi in comune con quella di Santa Teodora d’Alessandria.

  • Memoria di Santa Teodora d’Alessandria

a cura di Joseph Giovanni Fumusa

Santa Teodora visse ad Alessandria durante il regno dell’Imperatore Zenone. Era sposata con un uomo chiamato Pafnuzio, con cui visse in devozione e armonia fin quando, un giorno, un giovane ricco tentò di sedurla. Tratta in inganno con un tranello tesole dal diavolo, Teodora commise adulterio. Subito dopo si rese conto dell’errore commesso e la sua coscienza fu talmente afflitta che non tornò a casa; vestitasi come un uomo, si recò presso un monastero chiedendo di essere ammesso come novizio. Scambiandola per un eunuco e vista la sua volontà di intraprendere il cammino del pentimento, l’igumeno l’accettò nel monastero.

Per due anni, Santa Teodora mostrò zelo nello svolgimento del lavoro ascetico e trascorse la notte in lacrime e preghiere, chiedendo al Signore di perdonarla per il peccato commesso e di rinnovarle la grazia della castità. Questo comportamento fece adirare il diavolo, il quale si adoperò affinché non fosse vista di buon occhio. Arrivarono ad accusare Teodoro (è questo il nome con cui si presentò al monastero) di aver fornicato con una giovane che viveva vicino al monastero e, quando la ragazza partorì, il bambino fu portato al monastero. Teodoro non rispose alle accuse e preferì rimanere in silenzio, non volendo rivelare la sua vera identità. Fu espulsa dal monastero e andò a vivere in una capanna poco distante, portando con sé il bambino, come se fosse realmente suo. Lì visse per sette anni, soffrendo il caldo dell’estate e il freddo dell’inverno, oltre alle varie tentazioni a cui la sottopose il diavolo. Fu infine fatta tornare al monastero, dove aumentò le veglie, i digiuni e le preghiere, mostrando un’obbedienza ancora maggiore. Insegnò al bambino a vivere le virtù del Vangelo e la preghiera incessante, divenendo in questo modo suo figlio spirituale.

Dopo avergli dato gli ultimi consigli, si addormentò nel Signore. In quel momento l’igumeno ebbe la visione di una donna in abiti lucenti che veniva portata in cielo, unendosi alle schiere dei Giusti e dei Santi. Fu solo allora che gli altri monaci, in lacrime, si resero conto dell’errore commesso nell’aver accusato ingiustamente la Santa e glorificarono Dio. Avendo vissuto in incognito tra gli uomini e superandoli in ascesi, fu guarita dalla passione della carne lottando direttamente contro le tentazioni della carne tanto che, sebbene ancora rivestita del proprio corpo, raggiunse l’assenza di passione e la purezza degli angeli.