12 Marzo- Memoria di San Teofane il confessore del monte Sigriani (815); del beato Gregorio il Dialogo, papa di Roma (604); del giusto Finees; del profeta Aronne; del beato Simeone il pio, maestro di San Simeone il Nuovo Teologo
Όσιος Θεοφάνης ο Ομολογητής της Συγριανής, Όσιος Γρηγόριος ο Α’ Διάλογος Πάπας Ρώμης, Άγιοι Εννέα Μάρτυρες, Δίκαιος Φινεές, Όσιος Συμεών ο Ευλαβής, Άγιος Λαυρέντιος, Προφήτης Ααρών, Άγιος Δημήτριος βασιλεύς της Γεωργίας.

Kontàkion.

Tono 2. Cercando le cose.

Ricevuta dall’alto la divina rivelazione, sei uscito sollecito di mezzo alle agitazioni e vivendo in solitudine, o santo, hai ricevuto il dono di operare miracoli e il carisma della profezia, restando privo della tua consorte e della ricchezza.

Ikos.

Nulla anteponendo di ciò che è sulla terra, seguisti gioioso il Cristo che ti chiamava e prontamente hai preso sulle spalle il suo giogo e trovato riposo per la tua anima: fa’ giungere questo riposo anche a me, povero e negligente che dico e non faccio, ma continuo a occuparmi delle cose di questa vita e sono pieno di stupore nel vedere come tu hai fuggito tutto, restando privo della tua consorte e della ricchezza.

Sinassario

Il 12 di questo mese memoria del nostro santo padre e confessore Teofane di Singriana, che riposa a Campogrande.
Stichi. Ti rivelasti difensore dei credenti che onorano pacificamente con fede pura la tua fine, o Teofane.

Lo stesso giorno memoria del nostro santo padre Gregorio il Dialogo, papa di Roma.
Stichi. Fuori dalla vita, Gregorio si trova fuori dal tempo in mezzo alle schiere degli angeli.

Lo stesso giorno memoria dei santi nove martiri uccisi nel fuoco.
Stichi. I nove sono audaci davanti alla fornace, infiammati dalla fornace della divina brama.

Lo stesso giorno il giusto Finees si addormentò in pace.
Stichi. Finees stette con franchezza davanti a Dio, con la compassione dell’anima, salvandoci dalla distruzione.

Lo stesso giorno il beato nostro padre Simeone il nuovo teologo si addormentò in pace.
Stichi. La tua lingua precedeva il libro, mentre il tuo libro rimpiazza la lingua.

Per le loro sante preghiere, o Dio, abbi pietà di noi e salvaci. Amìn.

 

  • 03: memoria del nostro venerando padre Nicodemo l’Umile

Archimandrita Antonio Scordino

E’ priva di dati cronologici anche la Vita di san Nicodemo l’Umile, nato a Sicrò (per un seicentesco equivoco, in passato si disse: Cirò di Catanzaro), un villaggio nella Regione delle Saline, il cui nome ricorre anche nella Vita dello Speleota, ma a noi sconosciuto. In verità, si ignorano anche i confini della stessa Regione delle Saline (ma vedi la Passio di san Pancrazio): essa, più che un luogo geografico, fu un luogo dello spirito: quella valle destinata a coloro che saranno trasformati dalle increate Energie, di cui parla il salmo 59. Illuminato dalle divine Energie, Nicodemo si affidò alla guida del ghèron Anania, che allora praticava l’esicasmo presso il tempio del taumaturgo San Fantino il Cavallaro [a Tauriana]. Dopo qualche tempo, il ghèron rivestì Nicodemo dell’abito monastico. Il beato perseverò con quel santo ghèron, combattendo la guerra contro la carne per molti anni, con i digiuni, le preghiere e le veglie, impegnandosi nell’obbedienza e nell’umiltà. Aveva come intermediario con Dio il venerato ghèron, e si serviva dell’arma delle sue sante preghiere contro le tentazioni demoniache. Poiché gli Agareni devastavano a quel tempo tutta quanta la terra, Nicodemo credette che ciò fosse ira di Dio e, fuggendo per monti e spelonche, si fermò in luogo deserto, posto molto in alto, detto Kelleranà, intransitabile per gli uomini e piuttosto abitata da demoni. Qui il nobile asceta, affrontando combattimenti sovrumani, vinse eserciti di malvagi demoni. Da essi fu messo alla prova per tre mesi: facevano strepiti, scuotendo la cella per farla cadere, ma egli resisteva immobile come una colonna, e li fece scomparire da quel luogo: avendo costruito una casa di preghiera dedicata all’arcangelo Michele, nessuno può raccontare la vita che egli trascorse là per molti anni. Ogni giorno macinava il grano e faceva il pane, ma non per se stesso: per quelli che accorrevano a lui e per i bisogni dei discepoli; egli per oltre 50 anni non mangiò mai pane né bevve vino o acqua. Aveva questa dieta: metteva castagne ad ammollare in una pentola, e le mangiava a sera bevendo quel decotto. Se qualche volta riceveva pesci, diceva a se stesso: “Nicodemo, mangia pure; ma non come vuoi”; li seccava al sole, come un pezzo di legno, e li mangiava senza ammollarli. Come vestito, egli aveva un mantello di pelle e una corta tunica che lo copriva fino alle ginocchia; per tutta la notte faceva infinite metànie, prostrazioni, dedicandosi alla Preghiera continua. Un giorno, i fratelli cominciarono tutti assieme a dirgli: “Padre, è difficile vivere qui”. Ed egli: “Bene; e dove volete trasferirvi?” Risposero: “Dalla parti di Vukìto [?] c’è il glorioso tempio della Madre di Dio. Se tu vuoi, ci trasferiremo là”. Egli non si oppose, pur sapendo ciò che sarebbe successo: era infatti la festa del Transito della Purissima, e ogni anno si riuniva una moltitudine di popolo. La vigilia della festa li svegliò: “Andiamo, figli, dove avete proposto”. Quando essi però giunsero e videro la folla, ricordando la tranquillità d’un tempo, caddero ai piedi del grande uomo, dicendo: “Perdonaci, padre! Guidaci dove eravamo prima”. Ed egli, avendoli riuniti, con gioia tornò indietro. Una volta Nicodemo lavorava nell’orto e uno scorpione gli si attaccò al piede. Disse: “Ora che mi hai morso, che utilità hai avuto?” E poiché i presenti cercavano di uccidere la bestia, il santo disse loro: “Lasciatela andare; non mi ha fatto male”. Ponendo nel cuore divine ascesi, andava verso la più alta vetta dell’impassibilità, come il profeta Elia; come Mosè risplendeva nel volto, partecipando alle divine Energie. Il nostro padre aveva ricevuto da Dio il carisma di lottare gli spiriti impuri e cacciava i demoni, terrorizzandoli anche da lontano. Un giovane sofferente fu portato dai genitori che scongiuravano: “Prega perché sia liberato dallo spirito che lo domina”. Ma egli, essendo molto umile, rispose: “Portatelo ad Elia lo Speleota, perché io sono un peccatore e non ho questo potere”. Ma intanto il demone spingeva il giovane a buttarsi nudo tra le spine, e allora il santo terribile ai demoni, prendendo il bastone, minacciò l’impuro spirito: “Esci, sciagurato!” E quegli subito uscì. Una donna era impazzita. I familiari la portarono al santo ed egli disse: “Andate via! Perché avete trascurato i santi taumaturghi Elia il Nuovo e lo Speleota, e venite da un peccatore? Correte là con fede e desiderio, per venerare le loro sante reliquie”. Ma ecco che lo spirito cominciò a beffeggiare il santo, chiamando gherondaaa! e occhi-belliii! Il taumaturgo, agitando il bastone contro di lui, gli comandò di tacere, e il demonio fuggì. Il bellissimo Basilio, figlio di un sacerdote, era tormentato dal demonio, nemico del bello. Nicodemo pregò tutta la notte e cacciò da lui l’impuro spirito. Una volta il meraviglioso padre andò [a Melicuccà] nella grotta del grande Elia. Quando fu vicino, tutti festosamente uscirono incontro al santo e tra questi uscì il sacerdote Leone, che da molti anni soffriva di mal di testa e appunto per guarire era andato là da un paese lontano. Diceva: “Abbi pietà, perché sono sconvolto da uno spirito”. Nicodemo gli afferrò la testa, dicendo: “Leone, come mai tu mi riconosci medico?” E con l’applicazione della sua santa mano subito lo spirito uscì fuori. Kallo, uno dei personaggi più illustri del paese, diventò diabolico per amore. Con l’autorità del suo potere separò una donna dal marito, e la prese con sé. Il santo padre andò a parlargli: “Per azione di qualche demonio hai desiderato e tieni con te una donna: restituiscila a suo marito”. Ma quello, gridando, mandò via il santo: l’indomani – giorno della divina e splendente risurrezione di Cristo – proprio mentre andava in chiesa, fu ucciso dal suo stesso figlio. Una cerva aveva preso l’abitudine di divorare l’orto senza curarsi delle preghiere e minacce del santo: una belva allora la portò via. Una volta gli Agareni lo catturarono. Nicodemo elevava al Signore le abituali preghiere ed essi lo deridevano, dicendo: “A che ti serve questa preghiera?” Mentre quello perseverava nella preghiera, la Potenza divina spinse l’uno contro l’altro a rissa mortale; e il santo si liberò. Una volta gli Agareni avevano fatto prigionieri nove uomini di Bisignano e li portavano schiavi in Sicilia. Giunti a Pilio, sbarcarono e dormivano mentre i prigionieri si rivolgevano a Dio, invocandolo di venire in loro aiuto. Uno dice: “Conosco un santo esicasta, un taumaturgo che vive in un luogo deserto: preghiamolo!” Mentre fiduciosamente pregavano, vedono d’essere liberi dalla catene. Raggiungono di corsa il loro salvatore, ed egli disse: “Ringraziate il Signore!” Diventato pieno di giorni, giunto a circa 70 anni, il divino e grande nostro padre fu sciolto dai legami della carne il 12 marzo. Il suo viso subito dopo la morte sprigionò raggi di luce e di fuoco, come bagliori, anche fin dentro la tomba. Cori di angeli elevarono un grido di esultanza; folle di arcangeli si radunarono, vedendo che giungeva il trionfante lottatore che aveva vinto eserciti di demoni; Cristo accolse quella santa e felice anima nella reggia celeste. La Vita che ho qui sunteggiato non ha date: poiché però si fa riferimento al culto dello Speleota, si può pensare che Nicodemo sia vissuto nell’11° secolo. Alcune reliquie di san Nicodemo sono conservate a Mammola, in provincia di Reggio; sul Passo della Limina, tra i ruderi dell’antico monastero, si può venerare la tràpeza, l’altare che gli ultimi monaci ortodossi sotterrarono per impedire che vi potessero celebrare i r.cattolici.

12.03: Memoria di San Gregorio papa e patriarca di Roma detto il Dialogo e ricordato in Occidente con il titolo di Magno (papa dal 590 al 604)      

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.

(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

tratto dal quotidiano Avvenire 

 Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant’Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l’ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell’azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604

tratto da 

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528.html

 Cari fratelli e sorelle! 

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

 

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.  

 

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590. 

 

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

 

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

 

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

 

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei.  Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.

  

tratto da

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080604.html

 Cari fratelli e sorelle,

ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe – noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

 

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

 

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi – sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

 

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” – particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico – o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

 

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

 

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone. 

 

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

 

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina  illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

 

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere – come soleva sottoscriversi – servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

 

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http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-i-papa-detto-magno-santo/

 

Santo Gregorio papa e patriarca di Roma detto il Dialogo e ricordato  in Occidente con il titolo di Magno (papa dal 590 al 604)

 

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

 

tratto dal quotidiano Avvenire 

 

Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant’Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l’ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell’azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604

tratto da 
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528.html

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.  

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590. 

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei.  Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.

tratto da

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080604.html

 

Cari fratelli e sorelle,
ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe – noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi – sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” – particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico – o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone. 

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina  illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere – come soleva sottoscriversi – servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

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  • 03: Memoria di San Pietro diacono e discepolo del papa Gregorio il Dialogo (verso il 605)

Martirologio Romano: A Roma, Pietro Diacono , che, monaco sul Celio, per mandato del papa san Gregorio Magno, amministrò con saggezza il patrimonio della Chiesa di Roma e, ordinato diacono, servì con fedeltà il pontefice.

tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/44800

Pietro nacque nella metà del secolo VI. Secondo una radicata tradizione ed in base ai codici liturgici medievali conservati nell’Archivio Capitolare di Vercelli, apparteneva alla famiglia Bulgaro, feudatari di Vittimulo, dal cui castello ebbe origine l’attuale paese di Salussola (diocesi di Biella). Quand’era ancora giovane sarebbe andato a Roma per perfezionare gli studi (in realtà però Roma potrebbe essere stata la sua città natale).
La potenza dell’Impero Romano era un lontano ricordo, da due secoli erano cessate le persecuzioni contro i cristiani ma erano numerosi i movimenti eretici e imperversavano le scorribande dei barbari. Mentre era studente di lettere e filosofia Pietro conobbe il futuro S. Gregorio Magno, monaco secondo la Regola Benedettina, più grande d’età di qualche anno. Nacque una profonda amicizia e anche Pietro si fece religioso. Venne nominato cardinale nel 577 da Benedetto I, il termine però non aveva il significato attuale: era cardinale infatti il religioso “incardinato” in una chiesa principale per lo svolgimento di importanti servizi.
Gregorio fu eletto papa il 3 settembre 590 e tra le sue prime decisioni ci fu quella di inviare Pietro, divenuto suddiacono, in Sicilia come suo Vicario. Nell’isola Gregorio aveva fondato diversi monasteri e il patrimonio della Chiesa era considerevole. La prima lettera del nutrito epistolario del sommo pontefice, che oggi possediamo, fu indirizzata a tutti i vescovi siciliani per presentare il suo Vicario, ne seguirono altre di cui molte indirizzate direttamente a Pietro. Quando parla di lui le espressioni sono molto lusinghiere, apprendiamo anche che il suo fisico era mingherlino. Nelle lettere, a volte ironiche, si discuteva di problemi pratici: confini di terreni, donazioni, usura, tangenti, assistenza ai poveri, vigilanza sui costumi del clero, costruzione di chiese e affidamento di cariche ecclesiastiche. Non mancavano rimproveri oppure ordini da eseguire con sollecitudine; dalla Sicilia lo Stato della Chiesa si riforniva di grano, la cui mancanza poteva causare tumulti e sommosse. Pietro stette nell’isola dal 590 al 592, con residenza principale probabilmente a Siracusa. Ricoprì lo stesso incarico in Campania per un anno, poi si stabilì definitivamente nella capitale e venne nominato Diacono.
Nel Proemio dei Dialoghi di S. Gregorio apprendiamo che, un giorno, questi si ritirò in un luogo solitario, probabilmente il Monastero di S. Andrea al Celio. Rammaricato e stanco dei gravosi impegni di Pastore della Chiesa, ricevette il conforto dell’amico Pietro definito “dilettissimo figlio e carissimo compagno in santo studio”, “singolare amico fin dalla sua prima gioventù”. Grande doveva essere la saggezza di Pietro per accogliere le confidenze del pontefice. Divenne suo segretario, collaborando alla stesura delle opere per le quali Gregorio sarà chiamato Magno. Dagli antichi biografi di Gregorio (il diacono Paolo che scrisse nel secolo VIII e il diacono Giovanni che scrisse invece nel secolo successivo) apprendiamo un episodio molto importante della vita del nostro Beato. Quando Gregorio dettava e Pietro scriveva erano separati da una tenda. Un giorno Pietro, stupito dalla velocità con cui il papa esponeva i dogmi della dottrina cristiana, guardò oltre la tenda e scoprì che era lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, che suggeriva all’orecchio del pontefice le verità della fede. Pietro promise che avrebbe mantenuto il segreto a costo della vita.
Il papa morì il 12 marzo 604 confidando, poco prima, al fedele segretario che avrebbero cercato di distruggere le sue opere. Pietro lo rassicurò che in tutti i modi l’avrebbe impedito. Il pericolo diventò concreto un anno dopo, durante una sommossa popolare causata dalla carestia. Si era diffusa la notizia che Gregorio aveva impoverito la Chiesa per la sua eccessiva prodigalità verso i poveri. Pietro difese gli scritti dal rogo rivelando come fossero stati ispirati divinamente: era pronto a giurare sulla Sacra Scrittura, dal pulpito della Basilica Vaticana. Se fosse morto all’istante quella era la verità. In una basilica gremita Pietro mantenne la promessa stramazzando al suolo come colpito da un fulmine, era il 30 aprile 605. Il glorioso gesto di Pietro salvò un patrimonio che è oggi di tutta la cristianità.
Venne sepolto presso il campanile della Basilica, poco distante dal suo grande maestro; acclamato santo la memoria fu stabilita nel Martirologio al 12 marzo. Il culto si diffuse anche in terra vercellese, insieme al desiderio di possedere le sue reliquie. Tale desiderio divenne così forte che, due secoli dopo, i suoi resti furono sottratti e misteriosamente condotti nel castello di Salussola. Nonostante la venerazione se ne perse però ogni traccia un secolo dopo, quando il castello cadde in rovina. Nel 960 una pia donna del luogo, discendente dei Bulgaro, ebbe una visione e l’impulso di cercare le dimenticate spoglie. L’urna fu ritrovata dopo diversi giorni di lavoro, il Vescovo Ingone dei marchesi d’Ivrea riconobbe le reliquie come autentiche. Si costruì una chiesa per dare loro una degna collocazione e sorse un cenobio benedettino. Intorno all’anno Mille la festa era celebrata in tutta la diocesi, fino al 1575 col Rito Eusebiano.
A Roma il furto delle reliquie fu scoperto da Clemente VIII solo agli inizi del ‘600. Sistemando le reliquie di S. Gregorio Magno nel nuovo altare in S. Pietro a lui dedicato, si voleva ricongiungerle con quelle del fidato segretario. Si indirizzò una lettera al vescovo di Vercelli, Monsignor Ferreri, in data 15 marzo 1600, affinché si facesse chiarezza sulla sottrazione. Il presule piemontese confermò che le reliquie erano venerate a Salussola e convinse il papa a desistere dal suo proposito di riaverle a Roma. Il culto era ormai esteso ai paesi vicini che invocavano Pietro soprattutto durante le pestilenze.
Nel 1782 l’Ordine dei Girolamini, che erano subentrati ai Benedettini nella custodia del monastero del B. Pietro, fu soppresso e la chiesa venne sconsacrata. Il Vescovo di Biella fece una ricognizione delle ossa che furono trasportate definitivamente nella Parrocchia. Iniziato subito il processo per la conferma del culto “ab immemorabili”, vi lavorò poi anche don Davide Riccardi che diverrà Cardinale Arcivescovo di Torino. L’approvazione di Pio IX arrivò il 3 maggio 1866 mentre si diffondeva l’errata iconografia del Beato in abiti cardinalizi.
Nel 1945 si costruì un oratorio, vicino al luogo in cui sorgeva l’antico monastero, per sciogliere un voto fatto dai cittadini di Salussola durante la Prima Guerra Mondiale. La festa patronale si celebra con solennità e grande devozione la prima domenica di maggio, ogni anno giunge da Olcenengo un pellegrinaggio per un voto fatto dalla comunità nel lontano 1484. Per tradizione ultramillenaria a Salussola viene indicato anche il luogo in cui sorgeva la sua casa natale.

  • 03: Memoria di San Teofane il confessore

Vicariato Arcivescovile della Campania- Chiesa dei SS. Pietro e Paolo – Napoli

San Teofane il Confessore nacque nel 760, in una illustre famiglia. Il padre morì quando Teofane aveva solo otto anni, e così, per le insistenze della madre, si sposò giovanissimo. Il Santo, però, agognava alla vita monastica: dopo alcuni anni di convivenza nella verginità, il matrimonio fu sciolto. La consorte entrò in monastero prendendo il nome monastico di Irene, ed il Santo fu tonsurato monaco, dopo avere distribuito i suoi beni ai poveri, al monastero Polichino sul monte Sigrianì, nei dintorni di Cizico, sulla sponda orientale del Mar di Marmara. In seguito divenne igumeno di quel monastero. Partecipò nel 787 ai lavori del Settimo Concilio Ecumenico, a Nicea di Bitinia, su richiesta del Patriarca di Costantinopoli Tarasio, in cui fu deciso di restaurare il culto delle icone e di condannare l’iconoclastia. Durante il regno di Leone V l’Armeno, con la ripresa della persecuzione iconoclasta, Teofane, che era già gravemente malato, fu imprigionato per due anni per la sua tenace iconodulia. In seguito, venne esiliato dagli iconoclasti nell’isola di Samotracia, dove si addormentò in pace, secondo alcuni nell’815, secondo altri nell’818.

 

  • 03Όσιος Συμεών ο Ευλαβής

Maestro di S. Simeone il nuovo Teologo

 

  • 03: Memoria di San Simeone il Nuovo Teologo

Saint Symeon became a monk of the Studite Monastery as a young man, under the guidance of the elder Symeon the Pious. Afterwards he struggled at the Monastery of Saint Mamas in Constantinople, of which he became abbot. After enduring many trials and afflictions in his life of piety, he reposed in 1022. Marvelling at the heights of prayer and holiness to which he attained, and the loftiness of the teachings of his life and writings, the church calls him “the New Theologian.” Only to two others, John the Evangelist and Gregory, Patriarch of Constantinople, has the church given the name “Theologian.” Saint Symeon reposed on March 12, but since this always falls in the Great Fast, his feast is kept today.

San Simeone divenne monaco nel Monastero di Stoudion da giovane, sotto la guida dell’anziano Simeone il Pio. Successivamente continuo le sue lotte ascetiche presso il Monastero di San Mamas a Costantinopoli, di cui divenne igumeno. Dopo aver sopportato molte prove e afflizioni nella sua vita di fede, si addormentò il 12 marzo del 1022. Meravigliandosi delle vette della preghiera e della santità che raggiunse e dell’altezza degli insegnamenti della sua vita e dei suoi scritti, la Chiesa lo chiama “il Nuovo Teologo”. Solo ad altri due, Giovanni Evangelista e Gregorio, Patriarca di Costantinopoli, la Chiesa ha dato il nome di “Teologo”. [da www.goarch.org]

12 Marzo- Memoria di San Teofane il confessore del monte Sigriani (815); del beato Gregorio il Dialogo, papa di Roma (604); del giusto Finees; del profeta Aronne; del beato Simeone il pio, maestro di San Simeone il Nuovo Teologo
Όσιος Θεοφάνης ο Ομολογητής της Συγριανής, Όσιος Γρηγόριος ο Α’ Διάλογος Πάπας Ρώμης, Άγιοι Εννέα Μάρτυρες, Δίκαιος Φινεές, Όσιος Συμεών ο Ευλαβής, Άγιος Λαυρέντιος, Προφήτης Ααρών, Άγιος Δημήτριος βασιλεύς της Γεωργίας.

Kontàkion.

Tono 2. Cercando le cose.

Ricevuta dall’alto la divina rivelazione, sei uscito sollecito di mezzo alle agitazioni e vivendo in solitudine, o santo, hai ricevuto il dono di operare miracoli e il carisma della profezia, restando privo della tua consorte e della ricchezza.

Ikos.

Nulla anteponendo di ciò che è sulla terra, seguisti gioioso il Cristo che ti chiamava e prontamente hai preso sulle spalle il suo giogo e trovato riposo per la tua anima: fa’ giungere questo riposo anche a me, povero e negligente che dico e non faccio, ma continuo a occuparmi delle cose di questa vita e sono pieno di stupore nel vedere come tu hai fuggito tutto, restando privo della tua consorte e della ricchezza.

Sinassario

Il 12 di questo mese memoria del nostro santo padre e confessore Teofane di Singriana, che riposa a Campogrande.
Stichi. Ti rivelasti difensore dei credenti che onorano pacificamente con fede pura la tua fine, o Teofane.

Lo stesso giorno memoria del nostro santo padre Gregorio il Dialogo, papa di Roma.
Stichi. Fuori dalla vita, Gregorio si trova fuori dal tempo in mezzo alle schiere degli angeli.

Lo stesso giorno memoria dei santi nove martiri uccisi nel fuoco.
Stichi. I nove sono audaci davanti alla fornace, infiammati dalla fornace della divina brama.

Lo stesso giorno il giusto Finees si addormentò in pace.
Stichi. Finees stette con franchezza davanti a Dio, con la compassione dell’anima, salvandoci dalla distruzione.

Lo stesso giorno il beato nostro padre Simeone il nuovo teologo si addormentò in pace.
Stichi. La tua lingua precedeva il libro, mentre il tuo libro rimpiazza la lingua.

Per le loro sante preghiere, o Dio, abbi pietà di noi e salvaci. Amìn.

 

  • 03: memoria del nostro venerando padre Nicodemo l’Umile

Archimandrita Antonio Scordino

E’ priva di dati cronologici anche la Vita di san Nicodemo l’Umile, nato a Sicrò (per un seicentesco equivoco, in passato si disse: Cirò di Catanzaro), un villaggio nella Regione delle Saline, il cui nome ricorre anche nella Vita dello Speleota, ma a noi sconosciuto. In verità, si ignorano anche i confini della stessa Regione delle Saline (ma vedi la Passio di san Pancrazio): essa, più che un luogo geografico, fu un luogo dello spirito: quella valle destinata a coloro che saranno trasformati dalle increate Energie, di cui parla il salmo 59. Illuminato dalle divine Energie, Nicodemo si affidò alla guida del ghèron Anania, che allora praticava l’esicasmo presso il tempio del taumaturgo San Fantino il Cavallaro [a Tauriana]. Dopo qualche tempo, il ghèron rivestì Nicodemo dell’abito monastico. Il beato perseverò con quel santo ghèron, combattendo la guerra contro la carne per molti anni, con i digiuni, le preghiere e le veglie, impegnandosi nell’obbedienza e nell’umiltà. Aveva come intermediario con Dio il venerato ghèron, e si serviva dell’arma delle sue sante preghiere contro le tentazioni demoniache. Poiché gli Agareni devastavano a quel tempo tutta quanta la terra, Nicodemo credette che ciò fosse ira di Dio e, fuggendo per monti e spelonche, si fermò in luogo deserto, posto molto in alto, detto Kelleranà, intransitabile per gli uomini e piuttosto abitata da demoni. Qui il nobile asceta, affrontando combattimenti sovrumani, vinse eserciti di malvagi demoni. Da essi fu messo alla prova per tre mesi: facevano strepiti, scuotendo la cella per farla cadere, ma egli resisteva immobile come una colonna, e li fece scomparire da quel luogo: avendo costruito una casa di preghiera dedicata all’arcangelo Michele, nessuno può raccontare la vita che egli trascorse là per molti anni. Ogni giorno macinava il grano e faceva il pane, ma non per se stesso: per quelli che accorrevano a lui e per i bisogni dei discepoli; egli per oltre 50 anni non mangiò mai pane né bevve vino o acqua. Aveva questa dieta: metteva castagne ad ammollare in una pentola, e le mangiava a sera bevendo quel decotto. Se qualche volta riceveva pesci, diceva a se stesso: “Nicodemo, mangia pure; ma non come vuoi”; li seccava al sole, come un pezzo di legno, e li mangiava senza ammollarli. Come vestito, egli aveva un mantello di pelle e una corta tunica che lo copriva fino alle ginocchia; per tutta la notte faceva infinite metànie, prostrazioni, dedicandosi alla Preghiera continua. Un giorno, i fratelli cominciarono tutti assieme a dirgli: “Padre, è difficile vivere qui”. Ed egli: “Bene; e dove volete trasferirvi?” Risposero: “Dalla parti di Vukìto [?] c’è il glorioso tempio della Madre di Dio. Se tu vuoi, ci trasferiremo là”. Egli non si oppose, pur sapendo ciò che sarebbe successo: era infatti la festa del Transito della Purissima, e ogni anno si riuniva una moltitudine di popolo. La vigilia della festa li svegliò: “Andiamo, figli, dove avete proposto”. Quando essi però giunsero e videro la folla, ricordando la tranquillità d’un tempo, caddero ai piedi del grande uomo, dicendo: “Perdonaci, padre! Guidaci dove eravamo prima”. Ed egli, avendoli riuniti, con gioia tornò indietro. Una volta Nicodemo lavorava nell’orto e uno scorpione gli si attaccò al piede. Disse: “Ora che mi hai morso, che utilità hai avuto?” E poiché i presenti cercavano di uccidere la bestia, il santo disse loro: “Lasciatela andare; non mi ha fatto male”. Ponendo nel cuore divine ascesi, andava verso la più alta vetta dell’impassibilità, come il profeta Elia; come Mosè risplendeva nel volto, partecipando alle divine Energie. Il nostro padre aveva ricevuto da Dio il carisma di lottare gli spiriti impuri e cacciava i demoni, terrorizzandoli anche da lontano. Un giovane sofferente fu portato dai genitori che scongiuravano: “Prega perché sia liberato dallo spirito che lo domina”. Ma egli, essendo molto umile, rispose: “Portatelo ad Elia lo Speleota, perché io sono un peccatore e non ho questo potere”. Ma intanto il demone spingeva il giovane a buttarsi nudo tra le spine, e allora il santo terribile ai demoni, prendendo il bastone, minacciò l’impuro spirito: “Esci, sciagurato!” E quegli subito uscì. Una donna era impazzita. I familiari la portarono al santo ed egli disse: “Andate via! Perché avete trascurato i santi taumaturghi Elia il Nuovo e lo Speleota, e venite da un peccatore? Correte là con fede e desiderio, per venerare le loro sante reliquie”. Ma ecco che lo spirito cominciò a beffeggiare il santo, chiamando gherondaaa! e occhi-belliii! Il taumaturgo, agitando il bastone contro di lui, gli comandò di tacere, e il demonio fuggì. Il bellissimo Basilio, figlio di un sacerdote, era tormentato dal demonio, nemico del bello. Nicodemo pregò tutta la notte e cacciò da lui l’impuro spirito. Una volta il meraviglioso padre andò [a Melicuccà] nella grotta del grande Elia. Quando fu vicino, tutti festosamente uscirono incontro al santo e tra questi uscì il sacerdote Leone, che da molti anni soffriva di mal di testa e appunto per guarire era andato là da un paese lontano. Diceva: “Abbi pietà, perché sono sconvolto da uno spirito”. Nicodemo gli afferrò la testa, dicendo: “Leone, come mai tu mi riconosci medico?” E con l’applicazione della sua santa mano subito lo spirito uscì fuori. Kallo, uno dei personaggi più illustri del paese, diventò diabolico per amore. Con l’autorità del suo potere separò una donna dal marito, e la prese con sé. Il santo padre andò a parlargli: “Per azione di qualche demonio hai desiderato e tieni con te una donna: restituiscila a suo marito”. Ma quello, gridando, mandò via il santo: l’indomani – giorno della divina e splendente risurrezione di Cristo – proprio mentre andava in chiesa, fu ucciso dal suo stesso figlio. Una cerva aveva preso l’abitudine di divorare l’orto senza curarsi delle preghiere e minacce del santo: una belva allora la portò via. Una volta gli Agareni lo catturarono. Nicodemo elevava al Signore le abituali preghiere ed essi lo deridevano, dicendo: “A che ti serve questa preghiera?” Mentre quello perseverava nella preghiera, la Potenza divina spinse l’uno contro l’altro a rissa mortale; e il santo si liberò. Una volta gli Agareni avevano fatto prigionieri nove uomini di Bisignano e li portavano schiavi in Sicilia. Giunti a Pilio, sbarcarono e dormivano mentre i prigionieri si rivolgevano a Dio, invocandolo di venire in loro aiuto. Uno dice: “Conosco un santo esicasta, un taumaturgo che vive in un luogo deserto: preghiamolo!” Mentre fiduciosamente pregavano, vedono d’essere liberi dalla catene. Raggiungono di corsa il loro salvatore, ed egli disse: “Ringraziate il Signore!” Diventato pieno di giorni, giunto a circa 70 anni, il divino e grande nostro padre fu sciolto dai legami della carne il 12 marzo. Il suo viso subito dopo la morte sprigionò raggi di luce e di fuoco, come bagliori, anche fin dentro la tomba. Cori di angeli elevarono un grido di esultanza; folle di arcangeli si radunarono, vedendo che giungeva il trionfante lottatore che aveva vinto eserciti di demoni; Cristo accolse quella santa e felice anima nella reggia celeste. La Vita che ho qui sunteggiato non ha date: poiché però si fa riferimento al culto dello Speleota, si può pensare che Nicodemo sia vissuto nell’11° secolo. Alcune reliquie di san Nicodemo sono conservate a Mammola, in provincia di Reggio; sul Passo della Limina, tra i ruderi dell’antico monastero, si può venerare la tràpeza, l’altare che gli ultimi monaci ortodossi sotterrarono per impedire che vi potessero celebrare i r.cattolici.

12.03: Memoria di San Gregorio papa e patriarca di Roma detto il Dialogo e ricordato in Occidente con il titolo di Magno (papa dal 590 al 604)      

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.

(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

tratto dal quotidiano Avvenire 

 Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant’Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l’ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell’azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604

tratto da 

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528.html

 Cari fratelli e sorelle! 

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

 

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.  

 

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590. 

 

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

 

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

 

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

 

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei.  Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.

  

tratto da

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080604.html

 Cari fratelli e sorelle,

ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe – noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

 

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

 

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi – sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

 

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” – particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico – o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

 

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

 

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone. 

 

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

 

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina  illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

 

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere – come soleva sottoscriversi – servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

 

consultare anche il link

http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-i-papa-detto-magno-santo/

 

Santo Gregorio papa e patriarca di Roma detto il Dialogo e ricordato  in Occidente con il titolo di Magno (papa dal 590 al 604)

 

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

 

tratto dal quotidiano Avvenire 

 

Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant’Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l’ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell’azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. Morì il 12 marzo 604

tratto da 
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080528.html

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.  

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590. 

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo – era un vero pacificatore – , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei.  Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza.

tratto da

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080604.html

 

Cari fratelli e sorelle,
ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe – noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi – sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” – particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico – o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone. 

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina  illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere – come soleva sottoscriversi – servus servorum Dei. Questa espressione a lui cara non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

consultare anche il link
http://www.treccani.it/enciclopedia/gregorio-i-papa-detto-magno-santo/

  • 03: Memoria di San Pietro diacono e discepolo del papa Gregorio il Dialogo (verso il 605)

Martirologio Romano: A Roma, Pietro Diacono , che, monaco sul Celio, per mandato del papa san Gregorio Magno, amministrò con saggezza il patrimonio della Chiesa di Roma e, ordinato diacono, servì con fedeltà il pontefice.

tratto da
http://www.santiebeati.it/dettaglio/44800

Pietro nacque nella metà del secolo VI. Secondo una radicata tradizione ed in base ai codici liturgici medievali conservati nell’Archivio Capitolare di Vercelli, apparteneva alla famiglia Bulgaro, feudatari di Vittimulo, dal cui castello ebbe origine l’attuale paese di Salussola (diocesi di Biella). Quand’era ancora giovane sarebbe andato a Roma per perfezionare gli studi (in realtà però Roma potrebbe essere stata la sua città natale).
La potenza dell’Impero Romano era un lontano ricordo, da due secoli erano cessate le persecuzioni contro i cristiani ma erano numerosi i movimenti eretici e imperversavano le scorribande dei barbari. Mentre era studente di lettere e filosofia Pietro conobbe il futuro S. Gregorio Magno, monaco secondo la Regola Benedettina, più grande d’età di qualche anno. Nacque una profonda amicizia e anche Pietro si fece religioso. Venne nominato cardinale nel 577 da Benedetto I, il termine però non aveva il significato attuale: era cardinale infatti il religioso “incardinato” in una chiesa principale per lo svolgimento di importanti servizi.
Gregorio fu eletto papa il 3 settembre 590 e tra le sue prime decisioni ci fu quella di inviare Pietro, divenuto suddiacono, in Sicilia come suo Vicario. Nell’isola Gregorio aveva fondato diversi monasteri e il patrimonio della Chiesa era considerevole. La prima lettera del nutrito epistolario del sommo pontefice, che oggi possediamo, fu indirizzata a tutti i vescovi siciliani per presentare il suo Vicario, ne seguirono altre di cui molte indirizzate direttamente a Pietro. Quando parla di lui le espressioni sono molto lusinghiere, apprendiamo anche che il suo fisico era mingherlino. Nelle lettere, a volte ironiche, si discuteva di problemi pratici: confini di terreni, donazioni, usura, tangenti, assistenza ai poveri, vigilanza sui costumi del clero, costruzione di chiese e affidamento di cariche ecclesiastiche. Non mancavano rimproveri oppure ordini da eseguire con sollecitudine; dalla Sicilia lo Stato della Chiesa si riforniva di grano, la cui mancanza poteva causare tumulti e sommosse. Pietro stette nell’isola dal 590 al 592, con residenza principale probabilmente a Siracusa. Ricoprì lo stesso incarico in Campania per un anno, poi si stabilì definitivamente nella capitale e venne nominato Diacono.
Nel Proemio dei Dialoghi di S. Gregorio apprendiamo che, un giorno, questi si ritirò in un luogo solitario, probabilmente il Monastero di S. Andrea al Celio. Rammaricato e stanco dei gravosi impegni di Pastore della Chiesa, ricevette il conforto dell’amico Pietro definito “dilettissimo figlio e carissimo compagno in santo studio”, “singolare amico fin dalla sua prima gioventù”. Grande doveva essere la saggezza di Pietro per accogliere le confidenze del pontefice. Divenne suo segretario, collaborando alla stesura delle opere per le quali Gregorio sarà chiamato Magno. Dagli antichi biografi di Gregorio (il diacono Paolo che scrisse nel secolo VIII e il diacono Giovanni che scrisse invece nel secolo successivo) apprendiamo un episodio molto importante della vita del nostro Beato. Quando Gregorio dettava e Pietro scriveva erano separati da una tenda. Un giorno Pietro, stupito dalla velocità con cui il papa esponeva i dogmi della dottrina cristiana, guardò oltre la tenda e scoprì che era lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, che suggeriva all’orecchio del pontefice le verità della fede. Pietro promise che avrebbe mantenuto il segreto a costo della vita.
Il papa morì il 12 marzo 604 confidando, poco prima, al fedele segretario che avrebbero cercato di distruggere le sue opere. Pietro lo rassicurò che in tutti i modi l’avrebbe impedito. Il pericolo diventò concreto un anno dopo, durante una sommossa popolare causata dalla carestia. Si era diffusa la notizia che Gregorio aveva impoverito la Chiesa per la sua eccessiva prodigalità verso i poveri. Pietro difese gli scritti dal rogo rivelando come fossero stati ispirati divinamente: era pronto a giurare sulla Sacra Scrittura, dal pulpito della Basilica Vaticana. Se fosse morto all’istante quella era la verità. In una basilica gremita Pietro mantenne la promessa stramazzando al suolo come colpito da un fulmine, era il 30 aprile 605. Il glorioso gesto di Pietro salvò un patrimonio che è oggi di tutta la cristianità.
Venne sepolto presso il campanile della Basilica, poco distante dal suo grande maestro; acclamato santo la memoria fu stabilita nel Martirologio al 12 marzo. Il culto si diffuse anche in terra vercellese, insieme al desiderio di possedere le sue reliquie. Tale desiderio divenne così forte che, due secoli dopo, i suoi resti furono sottratti e misteriosamente condotti nel castello di Salussola. Nonostante la venerazione se ne perse però ogni traccia un secolo dopo, quando il castello cadde in rovina. Nel 960 una pia donna del luogo, discendente dei Bulgaro, ebbe una visione e l’impulso di cercare le dimenticate spoglie. L’urna fu ritrovata dopo diversi giorni di lavoro, il Vescovo Ingone dei marchesi d’Ivrea riconobbe le reliquie come autentiche. Si costruì una chiesa per dare loro una degna collocazione e sorse un cenobio benedettino. Intorno all’anno Mille la festa era celebrata in tutta la diocesi, fino al 1575 col Rito Eusebiano.
A Roma il furto delle reliquie fu scoperto da Clemente VIII solo agli inizi del ‘600. Sistemando le reliquie di S. Gregorio Magno nel nuovo altare in S. Pietro a lui dedicato, si voleva ricongiungerle con quelle del fidato segretario. Si indirizzò una lettera al vescovo di Vercelli, Monsignor Ferreri, in data 15 marzo 1600, affinché si facesse chiarezza sulla sottrazione. Il presule piemontese confermò che le reliquie erano venerate a Salussola e convinse il papa a desistere dal suo proposito di riaverle a Roma. Il culto era ormai esteso ai paesi vicini che invocavano Pietro soprattutto durante le pestilenze.
Nel 1782 l’Ordine dei Girolamini, che erano subentrati ai Benedettini nella custodia del monastero del B. Pietro, fu soppresso e la chiesa venne sconsacrata. Il Vescovo di Biella fece una ricognizione delle ossa che furono trasportate definitivamente nella Parrocchia. Iniziato subito il processo per la conferma del culto “ab immemorabili”, vi lavorò poi anche don Davide Riccardi che diverrà Cardinale Arcivescovo di Torino. L’approvazione di Pio IX arrivò il 3 maggio 1866 mentre si diffondeva l’errata iconografia del Beato in abiti cardinalizi.
Nel 1945 si costruì un oratorio, vicino al luogo in cui sorgeva l’antico monastero, per sciogliere un voto fatto dai cittadini di Salussola durante la Prima Guerra Mondiale. La festa patronale si celebra con solennità e grande devozione la prima domenica di maggio, ogni anno giunge da Olcenengo un pellegrinaggio per un voto fatto dalla comunità nel lontano 1484. Per tradizione ultramillenaria a Salussola viene indicato anche il luogo in cui sorgeva la sua casa natale.

  • 03: Memoria di San Teofane il confessore

Vicariato Arcivescovile della Campania- Chiesa dei SS. Pietro e Paolo – Napoli

San Teofane il Confessore nacque nel 760, in una illustre famiglia. Il padre morì quando Teofane aveva solo otto anni, e così, per le insistenze della madre, si sposò giovanissimo. Il Santo, però, agognava alla vita monastica: dopo alcuni anni di convivenza nella verginità, il matrimonio fu sciolto. La consorte entrò in monastero prendendo il nome monastico di Irene, ed il Santo fu tonsurato monaco, dopo avere distribuito i suoi beni ai poveri, al monastero Polichino sul monte Sigrianì, nei dintorni di Cizico, sulla sponda orientale del Mar di Marmara. In seguito divenne igumeno di quel monastero. Partecipò nel 787 ai lavori del Settimo Concilio Ecumenico, a Nicea di Bitinia, su richiesta del Patriarca di Costantinopoli Tarasio, in cui fu deciso di restaurare il culto delle icone e di condannare l’iconoclastia. Durante il regno di Leone V l’Armeno, con la ripresa della persecuzione iconoclasta, Teofane, che era già gravemente malato, fu imprigionato per due anni per la sua tenace iconodulia. In seguito, venne esiliato dagli iconoclasti nell’isola di Samotracia, dove si addormentò in pace, secondo alcuni nell’815, secondo altri nell’818.

 

  • 03Όσιος Συμεών ο Ευλαβής

Maestro di S. Simeone il nuovo Teologo

 

  • 03: Memoria di San Simeone il Nuovo Teologo

Saint Symeon became a monk of the Studite Monastery as a young man, under the guidance of the elder Symeon the Pious. Afterwards he struggled at the Monastery of Saint Mamas in Constantinople, of which he became abbot. After enduring many trials and afflictions in his life of piety, he reposed in 1022. Marvelling at the heights of prayer and holiness to which he attained, and the loftiness of the teachings of his life and writings, the church calls him “the New Theologian.” Only to two others, John the Evangelist and Gregory, Patriarch of Constantinople, has the church given the name “Theologian.” Saint Symeon reposed on March 12, but since this always falls in the Great Fast, his feast is kept today.

San Simeone divenne monaco nel Monastero di Stoudion da giovane, sotto la guida dell’anziano Simeone il Pio. Successivamente continuo le sue lotte ascetiche presso il Monastero di San Mamas a Costantinopoli, di cui divenne igumeno. Dopo aver sopportato molte prove e afflizioni nella sua vita di fede, si addormentò il 12 marzo del 1022. Meravigliandosi delle vette della preghiera e della santità che raggiunse e dell’altezza degli insegnamenti della sua vita e dei suoi scritti, la Chiesa lo chiama “il Nuovo Teologo”. Solo ad altri due, Giovanni Evangelista e Gregorio, Patriarca di Costantinopoli, la Chiesa ha dato il nome di “Teologo”. [da www.goarch.org]