- Memoria del grande terremoto di Costantinopoli e del miracolo del TRISAGHION
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
Sotto il regno dell’imperatore Teodosio il Giovane (486), il nostro Dio pieno di bontà e ricco in misericordia volle avvertire il popolo cristiano di tenersi pronto per il Grande Giorno in cui i morti sarebbero resuscitati, i cieli e la terra sarebbero cambiati in una forma nuova ed in cui tutti gli uomini sarebbero comparsi per essere giudicati sulla dirittura della loro fede e la purezza della loro vita. Il Signore fece allora tremare la terra in maniera notevole per più giorni. Presi dalla paura, l’imperatore, il patriarca e tutto il popolo di Costantinopoli uscirono dalla città e indirizzarono a Dio delle preghiere per la loro salvezza. A quell’epoca, si spandeva un po’ dappertutto l’eresia thèopaschita: una variante del monofisismo sparso dal patriarca usurpatore di Antiochia Pietro Foulon (464-490). Essa consisteva nell’aggiungere all’inno del Trisaghion cantato nella Liturgia, la formula: << che fu crocifisso per noi >> insinuando così che è Dio << tre volte santo >> stesso che ha sofferto sulla Croce. Poiché la folla intonava questo inno: << Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale … >>, un ragazzo fu subito elevato da una forza divina in aria. La paura del popolo raddoppiò avanti a questo nuovo prodigio e tutti gridarono per un lungo momento: << Signore abbi pietà! >>. Il ragazzo discese allora dal cielo e una voce potente dichiarò che egli era stato trasportato tra i cori Angelici e li aveva ascoltati con le proprie orecchie intonare il Trisaghion senza l’aggiunta eretica. Accompagnato da queste parole pronunciate e la santa fede ortodossa così confermata da una testimonianza celeste, il ragazzo rimise la sua anima tra le mani di Dio ed il terremoto cessò.
- Memoria del nostro santo Padre teoforo SERGIO di RADONETS, taumaturgo e protettore della Russia
a cura della Chiesa Greco-Ortodossa di San Paolo Apostolo dei Greci, Reggio di Calabria
San Sergio nacque nel 1313 a Rostov. I suoi genitori, Cirillo e Maria, gli diedero il nome al Battesimo di Bartolomeo. Fin dal seno di sua madre, Dio lasciò precedere la gloria del futuro servitore. Fu così che una volta, nel corso della Liturgia, prima della lettura del Vangelo, il bambino si mise a gridare nel grembo della madre, così forte che la sua voce fu ascoltata da altri. Al momento dell’inno dei Cherubini, la voce del bambino si fece ancora sentire e ciò sbigottì Maria. Allorché il prete annunciò: << Le Cose Sante ai Santi! >>, il bambino lanciò un grido per la terza volta e la madre cominciò a piangere. Coloro che erano presenti alla Liturgia volevano vedere il bambino; ma la madre fu impaurita di dire che non gridava dalle sua braccia, ma dal suo seno. Dopo questi avvenimenti inusuali, Maria, per tutto il periodo della gravidanza, non mangiava né carne, né latte, né pesce; ella si nutriva esclusivamente di pane e acqua e si dedicava alla preghiera. Quando ebbe sette anni, si mandò il bambino a studiare e, contrariamente ai suoi fratelli Stefano e Pietro che apprendevano bene, Bartolomeo aveva delle difficoltà. Il maestro lo puniva, i compagni lo deridevano, i suoi genitori lo rimproveravano; ma Bartolomeo malgrado tutta la sua buona volontà, non riusciva ad apprendere. Fu allora che si produsse lo stesso fenomeno di Saul. Un giorno che suo padre lo aveva inviato al campo a cercare i cavalli, Bartolomeo incontrò un monaco anziano sotto la quercia, che pregava versando lacrime. Il ragazzo si avvicinò dolcemente, aspettando la fine della preghiera dello starets, che gli disse: << Di cosa ha bisogno, ragazzo mio? >>. Bartolomeo rispose: << Io non riesco ad apprendere malgrado i miei sforzi. Prega Dio per me santo padre, perché io possa apprendere le lettere >>. Lo starets, pronunciando una preghiera diede un pezzo di prosforo al ragazzo e gli disse: << Non ti affliggere. A partire da oggi il Signore ti darà la comprensione delle lettere! >>. Allorché lo starets volle andar via, Bartolomeo cadde ai suoi piedi e gli chiese di visitare la casa dei suoi genitori. E aggiunse: << I miei genitori amano moto le persone simili a te, padre >>. L’anziano, sorridendo andò a casa dei genitori del ragazzo, che lo ricevettero con grande considerazione. Essi lo pregarono di dividere con loro il pasto, poi lo starets entrò nella cappella di famiglia. Prendendo il ragazzo con lui, l’anziano monaco gli ordinò di leggere le ore. Mentre, Bartolomeo, turbato, rispondeva di non sapere leggere. Lo starets ridiede l’ordine e il ragazzo avendo preso la sua benedizione, cominciò a leggere il salterio correttamente e distintamente, tra lo stupore generale. A tavola, i genitori raccontarono al monaco ciò che era successo in chiesa quando il bambino era ancora nel grembo materno. Lo starets, prima di separarsi da loro, disse queste parole enigmatiche: << Questo ragazzo dovrà diventare la dimora della Trinità e condurrà una moltitudine alla comprensione della Sua volontà >>.
Dopo ciò, Bartolomeo cominciò a frequentare con ardore la chiesa ed a leggere la Santa Scrittura. Dopo un certo tempo, all’età di dodici anni, si mise ad osservare una stretta temperanza, astenendosi da ogni nutrimento il mercoledì e il venerdì e accontentandosi, gli altri giorni, di pane secco e acqua. A causa di alcune sventure che lo colpirono a Rostov, il padre di Bartolomeo, Cirillo, partì per Radonets con la sua famiglia. Là Bartolomeo continuò la sua ascesi. Quando i due suoi fratelli si sposarono, egli chiese ai suoi genitori il permesso di dedicarsi alla vita monastica. Questi lo pregarono di ritardare il suo desiderio fino alla loro morte ma, poco tempo dopo, entrarono essi stessi in monastero e morirono poco dopo. Per quaranta giorni Bartolomeo pregò sulla loro tomba, nutrì i poveri e fece servire degli uffici di requiem. In seguito, fece dono dei suoi beni a suo fratello Pietro e decise di realizzare il suo desiderio. Suo fratello Stefano, la cui moglie era morta, effettuò la sua professione monastica al monastero di Khotov, dove i suoi genitori erano sepolti. Bartolomeo, che sognava una profonda solitudine, chiese a Stefano di cercare una grotta che si adattava bene alla sua vita ascetica. Essi camminarono a lungo nella foresta, poi trovarono un antro dotato d’acqua e lontano dalla strada battuta, a 10 Km da Radonets e da Khotov. Essi costruirono un cella con una piccola chiesa. Il fratello grande, obbediente al piccolo, chiese a chi si sarebbe dedicata la chiesa. Bartolomeo, ricordandosi le parole dello starets, rispose che conveniva dedicare la chiesa alla Santa Trinità. Il fratello minore disse allora che era questo ciò che pensava. La chiesa fu consacrata con la benedizione del Metropolita Theognosto. Avendo chiesto all’egumeno Mitrofane di venire, Bartolomeo ricevette la tonsura monastica con il nome di Sergio. Egli aveva allora ventiquattro anni (1337). Stefano, quanto a lui, partì poco tempo dopo per il monastero della Teofania a Mosca.
Ed ecco che Sergio si trovò solo in questa foresta, dove i lupi ululavano vicino alla sua cella e gli orsi si avvicinavano al luogo dove viveva il santo. Una volta Sergio vide che un orso non era tanto feroce quanto affamato e cominciò a provare pietà per questo animale, poi gli diede da mangiare. La belva si fidò del padre e venne sovente a ricevere da lui la sua pietanza. Il santo gliela dava ogni volta, dividendo il suo ultimo pezzo di pane con questo animale e privandosi del suo nutrimento. San Sergio restò solo per tre anni finché dei zelanti della pietà cominciarono a chiedergli di vivere sotto la sua protezione. Poco a poco, dodici fratelli si riunirono e ognuno costruì la propria cella. L’officio notturno, le ore, il mattutino, i vespri e le compiete erano quotidianamente celebrati nella chiesa. Per la celebrazione della liturgia, i fratelli chiamavano un prete dall’esterno, poiché non c’era ancora tra essi. Infine, l’egumeno Mitrofane, che aveva tonsurato Sergio, andò a vivere con loro. Ma, poco tempo dopo, questo anziano morì e quanto a Sergio, non voleva, per umiltà, divenire egumeno. I fratelli allora si riunirono, andarono dal santo e gli dissero: << Padre, noi non possiamo vivere senza egumeno e siamo convinti che tu debba svolgere questa funzione. Così quando verremo da te a rivelare i nostri peccati, riceveremo degli insegnamenti e l’assoluzione. Conviene anche che la liturgia sia celebrata e noi riceviamo i Santi Misteri dalle tue pure mani >>. Ma Sergio rifiutò e, qualche giorno dopo, la comunità si riunì di nuovo davanti al santo, pregandolo di accettare la carica di egumeno. << Non mi interessa di compiere il ministero angelico; mi interessa di piangere i miei peccati >>, rispose. I fratelli piansero e infine dissero: << Se tu non vuoi prenderti cura delle nostre anime, noi saremo costretti a lasciare questo luogo, noi erreremo allora come agnelli smarriti e tu dovrai rispondere avanti a Dio >>. << Io preferisco sottometterti anziché comandare, disse Sergio, ma, temendo il giudizio di Dio, io lascio questo problema alla volontà del Signore >>. Prendendo con lui due monaci più giovani andò a Pereioslav, da Attanasio, vescovo di Volinia, al quale Sant’Alessio, allora a Costantinopoli, aveva rimesso gli affari della diocesi metropolitana.
Nel 1354, Sergio fu ordinato prete, ed elevato al rango di egumeno dal vescovo Atanasio. Egli celebrava quotidianamente la Divina Liturgia ed arrivava per primo in chiesa per ogni officio. Preparava lui stesso i ceri e i prosfori, non permettendo a nessuno di partecipare a questo ultimo compito. Per tre anni il numero di monaci restò identico, il primo che fece aumentare questo numero fu l’archimandrita Simone di Smolensk, che preferì obbedire a san Sergio piuttosto che comandare altri.
La sera, dopo la compieta, tranne in caso di bisogno urgente, nessuno aveva l’autorizzazione di andare nella cella di un altro monaco poiché le ore della notte dovevano essere riservate a Dio. Il resto del tempo, essi restavano nel silenzio ad alternare preghiera al lavoro manuale. Alla fine della preghiera che i fratelli dovevano compiere nelle loro celle, il santo faceva segretamente il giro di queste. Se ascoltava conversazioni vane o risate, bussava alla finestra per farle cessare e andava via tutto triste. Al mattino, riuniva gli scorretti, e “da lontano”, con l’aiuto di parabole e con tono umile e dolce, li istruiva. Egli usava una severità tutta misurata solo per quelli che rifiutavano di fare penitenza e persistevano neo loro errori. Amava tanto la povertà che istituì come regola stretta di non fare mai questioni e profitto del monastero: qualunque fossero i suoi bisogni. Lo spoglimento era estremo nella comunità: si illuminava con dei ceri per l’officio ed i libri erano fatti in scorza di betulla. Un giorno, il monastero si trovò ridotto ad una così estrema miseria che non c’era né pane né acqua. Dopo aver trascorso tre giorni senza nutrimento, Sergio andò dal fratello Daniele e gli disse: << Ho sentito che vuoi costruire un ingresso avanti alla tua cella; io te lo costruirò affinché le mie mani non restino oziose. Ciò non ti costerà caro, io voglio del pane avariato e tu ne hai >>. Daniele gli portò allora dei pezzi di pane duro che aveva con sé. << Tienilo fino alla nona ora, io non prendo salario prima di aver lavorato >>. Avendo iniziato il suo lavoro, Sergio pregava, benedisse il pane, ne mangiò, poi bevve dell’acqua, ciò costituì il suo pasto. A motivo dell’assenza di nutrimento, i fratelli cominciarono a manifestare il loro malcontento: << Noi moriamo di fame >> dissero i deboli, << e tu non permetti di chiedere l’elemosina. Domani, noi partiremo da qui, ciascuno dal suo lato, e non ritorneremo più >>. In quel momento si intese qualcuno bussare alla porta. Il portiere vide che aveva portato molti pani. Egli accorse tutto gioioso e disse all’egumeno: << Padre, ci hanno portato molti pani, dacci la tua benedizione perché li prendiamo! >>. Il Santo ordinò di lasciare entrare i benefattori, e riunì tutti i fratelli a tavola, avendo prima voluto celebrare un officio di grazie: << Dove sono quelli che ci hanno portato questi doni? >> chiese. << Noi li abbiamo invitati a tavola e gli abbiamo chiesto chi li avesse inviati >>, rispose il monaco, << ed essi ci hanno risposto che era qualcuno che ama il Cristo che li aveva inviati; ma che avendo un altro incarico da compiere, dovevano partire >>. Un’altra volta il santo, in tarda serata, pregava per i fratelli del suo monastero, improvvisamente sentì una voce dirgli: << Sergio! Il Signore ha ascoltato la preghiera per i tuoi ragazzi, guarda che moltitudine che si è riunita intorno alla Santa Trinità >>. Allora il santo vide una moltitudine di uccelli meravigliosi, volare non solo nel monastero, ma anche tutt’attorno. << Così, proseguì la voce, si moltiplicherà il numero dei tuoi discepoli e non ti mancheranno i successori che cammineranno sulle tue tracce >>.
Poco tempo dopo, il patriarca Filoteo[1] fece recapitare al santo una croce ed altri regali con una lettera, di cui ecco il contenuto: << Per la misericordia divina, l’arcivescovo di Costantinopoli, patriarca ecumenico Filoteo, a Sergio, figlio nel Santo Spirito e concelebrante della nostra umile persona. Che la grazia, la pace e la nostra benedizione siano con tutti voi! Noi abbiamo sentito parlare della tua vita virtuosa, noi l’approviamo e glorifichiamo Dio. Ma ti manca una cosa: la vita comune (cenobitica). Tu sai, padre molto simile a Cristo, che il parente di Dio, il profeta Davide, che capiva tutto attraverso lo spirito, lodò la vita comune: << Che c’è di meglio e di più bello per i fratelli che vivere insieme? >> (Sal. 132). Perciò voglio donarvi un consiglio utile: istituite il cenobitismo. Che la misericordia di Dio e la nostra benedizione siano con tutti voi! >>. Seguendo il consiglio del patriarca, il santo, con la benedizione del Metropolita Alessio, introdusse la vita comune integrale nel suo monastero. Egli costruì gli edifici necessari, definì i doveri propri di questa vita, ordinò che ogni cosa fosse comune, impedì di possedere proprie proprietà o di chiamare qualcosa “suo”. Il numero dei discepoli crebbe e l’abbondanza regnò nel monastero. Si introdusse l’ospitalità, si nutrivano i poveri e si dava l’elemosina a coloro che domandavano. San Sergio si era sottomesso a questo consiglio del patriarca per spirito d’obbedienza. Benché fosse amante della solitudine, accettò di assumere questa forma più rigida di direzione senza cessare pertanto di essere un padre ed un educatore piuttosto che un amministratore. Ma doveva ben presto subire delle crudeli prove. Un sabato, il santo si trovava nel santuario, celebrando i vespri. Suo fratello, arrivato al monastero, chiese al canonarca: << Chi ti ha dato questo libro? >>, << L’egumeno >> rispose costui. << Chi è l’egumeo qui? >> rispose a sua volta Stefano, con collera. << Non ho fondato questo luogo io per primo? >>, e aggiunse violenti parole. Il santo sentendo tutto ciò nel santuario, comprese che questa manifestazione di malcontento era dovuta al nuovo ordine che regnava nel monastero. Malcontenti del cenobitismo, alcuni lasciarono in segreto il monastero e altri sostenevano di non volere più Sergio come egumeno. Il santo, lasciando quelli che volevano vivere secondo la propria volontà, avanti alla propria coscienza, non rientrò nella sua cella, ma si allontanò dal monastero. I migliori monaci erano inquieti, ma pensavano ancora che Sergio ritornasse. Tuttavia la loro attesa fu vana perché il santo si installò a Kirjatch. Su richiesta di alcuni, sant’Alessio, spedì una delegazione presso Sergio, per farlo rientrare al monastero dove era molto utile. Ma sant’Alessio, sentendo prossima la morte, ritenne di trovare nella persona di Sergio il suo successore e lo fece andare da lui donandogli la sua croce episcopale. Ma san Sergio, per umiltà, la rifiutò dicendo: << Perdonami, Signore, ma dalla mia infanzia io non ho avuto mai oro e ora, io voglio restare ancora di più nello spoglimento >>. << Io lo so, bene amato, ma accetta per obbedienza! >> rispose Alessio. Così dicendo, passò la croce attorno al collo e gli annunciò che lo designava come suo successore. << Perdonami, venerato pastore, ma tu mi vuoi caricare di un fardello che oltrepassa le mie forze. Tu non troverai in me ciò che cerchi, io sono il più peccatore ed il peggiore di tutti >>.
Quando le orde tartare si scaricarono sulla terra russa e la popolazione era spaventata, il gran Duca Dimitrij Ioannovitch, che aveva gran fede in san Sergio, gli chiese se doveva entrare in guerra contro gli empi tartari. Il santo benedisse il gran Duca per entrare in guerra e gli disse: << Con l’aiuto di Dio, tu sarai vittorioso e uscirai dalla battaglia sano e salvo e coperto di onori >>. Al momento della battaglia di Koulikovo[2], il santo era in preghiera con i suo fratelli e parlava dello sviluppo felice dei combattimenti, egli citò i nomi di quelli che erano morti, facendo una preghiera per essi. Conformante alla predizione di san Sergio, il gran Duca riportò la celebre vittoria di Koulikovo, che costituì l’inizio della liberazione dal giogo tartaro.
Una notte, mentre san Sergio cantava l’Acathisto alla Madre di Dio indirizzandole ferventi preghiere per il monastero davanti alla sua icona, si interruppe un istante per dire al suo discepolo Michea: << Sii vigilante, mio ragazzo, perché stiamo per ricevere una visita miracolosa >>. Appena ebbe pronunciato queste parole sentì una voce: << La Tutta Pura arriva! >>. Egli si precipitò all’entrata della sua cella e, improvvisamente, una luce inusuale lo circondò, più luminosa ancora del sole. Egli vide la Tutta Santa Madre di Dio, accompagnata dagli Apostoli Pietro e Giovanni, raggiante di una gloria indescrivibile. Il santo si prostrò a terra, ma la Madre di Dio lo rialzò con le sue mani e disse: << Non aver paura mio eletto! Io sono venuta a visitarti perché ho ascoltato la tua preghiera per i tuoi discepoli e per questo luogo. Da oggi, non lascerai più il tuo monastero, durante la vita come dopo la morte, ed io lo proteggerò! >>. Dopo ciò, il santo restò senza dormire tutta la notte, meditando con pietà sulla misericordia celeste.
Sei mesi prima del suo trapasso, il santo, chiamando la sua comunità, la raccomandò a Nikon, e si consacrò alla solitudine ed alla preghiera. In settembre, presentando la malattia, chiamò di nuovo i fratelli e diede a tutti le ultime istruzioni. Morì il 25 settembre 1391, all’età di settantotto anni.
Note:
1) Memoria l’ 11 ottobre
2) Battaglia decisiva per la Russia, che può essere comparata alla battaglia di Poiatiers in Francia.
- Memoria di San Lussorio Martire
a cura di Joseph Giovanni Fumusa
San Lussorio visse nella seconda metà del III secolo e ricopriva un incarico di pubblico ufficiale (apparitor) per il governatore della Sardegna, Delfio.
Entrò in contatto con le Scritture durante lo svolgimento del proprio lavoro e, colpitone, decise di approfondire la conoscenza del cristianesimo fino alla conversione. Proseguì nello studio delle Scritture e rinnegò gli idoli, venendo per questo denunciato e portato davanti al governatore Delfio. Fu accusato di blasfemia nel confronto degli dei e di disobbedire agli ordini imperiali. Delfio, probabilmente offeso dal “tradimento” di uno dei suoi più stretti collaboratori, offrì a Lussorio la scelta tra sacrificare gli dei (e, quindi, di avere salva la vita) o morire; il santo, rifiutatosi fermamente di compiere sacrifici agli idoli, fu gettato in carcere.
Ripresentato davanti al tribunale presieduto da Delfio qualche giorno dopo, fu nuovamente confrontato con le stesse accuse, ma Lussorio difese la sua posizione; vista l’impossibilità di battere Lussorio in tribunale e avendo capito che nemmeno le peggiori torture gli avrebbero fatto cambiare idea, Delfio lo condannò a morte per decapitazione. San Lussorio fu martirizzato nei pressi della città di Forum Traiani (l’odierna Fordongianus) attorno all’anno 304.
- Memoria di Santa Eufrosina d’Alessandria
a cura di Joseph Giovanni Fumusa
Santa Eufrosina nacque agli inizi del V secolo nella città di Alessandria, figlia unica di genitori illustri e abbienti. Perse la madre quando era ancora molto giovane e fu cresciuta dal padre, di nome Pafnuzio, un pio cristiano che aveva come guida spirituale Teodosio, l’igumeno di un monastero da lui spesso frequentato.
Quando Eufrosina raggiunse i diciotto anni, suo padre avrebbe voluto che si sposasse e, per questo, andò dalla sua guida spirituale al monastero per ricevere la benedizione per il matrimonio della figlia. L’igumeno parlò con Eufrosina e le diede la benedizione, sebbene la giovane desiderasse la vita monastica. Infatti, fu tonsurata in segreto da un monaco vagante e lasciò la casa paterna per entrare in monastero.
Temendo di essere facilmente trovata dal padre in un monastero femminile, decise di assumere l’identità di Smaragdo, un eunuco, e andò allo stesso monastero che aveva frequentato assieme al padre fin dall’infanzia. Giunta lì in abiti maschili, non fu riconosciuta da nessuno e fu accettata nella comunità. Qui Eufrosina trascorse 38 anni lavorando, digiunando e pregando. Nel frattempo, piangendo la perdita della figlia amata, suo padre si recò più volte dall’igumeno Teodosio, il quale gli consigliò sempre di discutere col monaco Smaragdo. Prima della propria dipartita, la monaca Eufrosina rivelò il proprio segreto al padre addolorato chiedendo che fosse soltanto lui a dover preparare il suo corpo per la sepoltura. Dopo aver seppellito la figlia, Pafnuzio distribuì i suoi averi ai poveri e al monastero e, dopo di ciò, divenne monaco e visse fino alla morte nella cella che era stata di sua figlia.